Il vero e grande passo in avanti, rispetto alla concezione della fantasia cartesiano-malebranchiana, il filosofo napoletano lo realizzerà, nel De nostri temporis studiorum ratione (1709). Tenendo conto delle precisazioni fatte a proposito di una già connaturata propensione ad esaltare la sua importanza, rimane evidente come nella quarta orazione egli avesse un’idea della fantasia, ancora come qualcosa che dovesse essere superato; egli parlava – come ricorda G. Costa – di mortificare (abaecare) la fantasia ed inoltre, nella sesta, ammetteva che la si dovesse ridurre (attenuare), finendo così, per non scostarsi più di tanto, dalle tesi malebrachiane.[1]
Solo nel De nostri temporis, Vico, riterrà indispensabile lo sviluppo della facoltà di fantasticare, inserendola tra i dogmi intoccabili della sua straordinaria pedagogia. Egli, infatti, solo qui insisterà fortemente sulla difesa del concetto di fantasia, correlandolo, tra l’altro, al funzionamento della memoria. Infatti egli svilupperà un vero e proprio metodo educativo, impostato proprio a partire dal connubio fantasia-memoria e proteso a recuperare fortemente l’attività inventiva.
Il vero ha una sola faccia, il falso infinite. Mentre il verosimile ne ha molte. La topica che si affianca al falso non conduce a niente; e lo stesso la critica, la quale rifiuta il verosimile. Per evitare entrambi questi errori, Vico, propone un rivoluzionario e, senza dubbio, innovativo metodo educativo. Infatti secondo lui, bisognerebbe: “insegnare ai giovani tutte le arti e le scienze secondo il criterio dello sviluppo integrale dell’intelletto, perché arricchiscano con la topica il proprio reparto di argomenti, e frattanto acquisiscano col senso comune una solida preparazione alla competenza pratica e all’eloquenza, e rafforzino con la fantasia e con la memoria la disposizione a quelle arti che si basano su queste facoltà mentali[2]”.
[1] Cfr. G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia,. cit., p. 336.
[2] G.B. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, a cura di P. Massimi, Roma, Armando Armando Editore, 1974, p. 62.