Vico accosta il concetto di fantasia a quello di conato. Entrambi, in questa fase del suo pensiero, diventano strettamente interconnessi, in quanto con l’aiuto della fantasia, i poeti cercano di raggiungere il sublime, tendendovi con l’anima, rapiti fuori di sé da questo sforzo di volontà.
Le argomentazioni sul conato troveranno una loro sistematica e compiuta trattazione nel De Antiquissima. Mentre per quanto riguarda la nozione di fantasia, essa acquisterà, una progressiva importanza nel suo pensiero. Si realizzerà una vera e propria escalation, partendo dalla prima orazione e finendo nella varie edizione della Scienza nuova.
Nella quarta orazione (1705), la questione della fantasia viene ancora affrontata in termini prettamente malebrachiani, infatti Vico scriverà: “colui che per apprendere la verità dedica la sua vita allo studio delle lettere deve completamente rinunciare a quasi tutti i sensi che considerava la guida più sicura della vita, e affinché possa comprendere il Primo vero è necessario che egli attenda la facoltà di creare immagini plastiche, cioè la fantasia [1]”.
Il filosofo napoletano ci presenta qui una concezione dell’attività fantastica ancora lontana da quella che poi incontreremo nel suo pensiero più maturo. Qui la fantasia è ancora considerata come il mezzo con il quale poter abbracciare l’infinito, e viene quindi teorizzata, come un’attività “decontaminata” da ogni agente sensibile.
Addirittura, nella sesta orazione (1707), Vico riprenderà anche le tesi malebranchiane inerenti alla concezione corruttrice dell’attività fantastica: “a causa del peccato originale sono state inflitte come pene della mente le false openioni. Perciò sin da tale età la nostra natura corrotta esige che le false openioni vengano allontanate. Eppure nei giovanetti la fantasia è vigorosissima, e ne sia una prova il fatto che, quando una volta da fanciulli ci siamo fatti un’idea della forma e della posizione di città e regioni lontane, a stento poi, nel resto della vita, riusciamo a formarcene un’idea diversa”[2].
Qui , Vico sembra considerare la fantasia come avversa alla ragione. In queste stesse pagine egli, riprendendo ancora qui un tema malebranchiano, affermerà che le donne non hanno la capacità di servirsi troppo della ragione, in quanto esse hanno molta fantasia.[3] Malebranche, infatti, avanzò l’ipotesi, secondo la quale, essendo le donne costituite da un numero maggiore di fibre cerebrali, esse sono più suscettibili alle turbolenze delle passioni.
Ma se si guarda a fondo, già in questa orazione, il filosofo napoletano, attiva quel lento, ma inesorabile, processo di allontanamento dalla concezione malebrachiana di fantasia. A proposito del ruolo dell’immaginazione nell’apprendimento della matematica egli scriverà:è spesso necessario infatti immaginare una serie interminabile di figure geometriche o numeri, e giungere alla verità della dimostrazione che ne deriva[4].
[1] G.B. Vico, Le orazioni inaugurali, cit., p. 147-149.
[2] Ivi, pp. 203-205.
[3] Cfr. Ibidem.
[4] Ibidem