Hegel ha sottolineato come la scissione ideale/reale, pensiero/essere è avvenuto grazie al pensiero ebraico e, successivamente, a quello cristiano, che ha disgiunto il senso della propria vita dalla vita in divenire, mettendo in cielo, lontano dalla terra, un dio lontano dal mondo. Ciò ha costretto l’uomo a vivere in una condizione di perenne inferiorità, di insoddisfazione e di irrefrenabile spinta verso il ricongiungimento con il vero senso delle cose. Il cristianesimo facendo appello a questo senso di frustrazione strutturale, ha messo in scena la perpetua matrice di ogni possibile infelicità concettuale. Ecco la coscienza infelice, infelice perché scissa dentro sé stessa. L’infelicità per Hegel si fonda sulla scissione che c’è tra la coscienza umana, variabile, mutabile, e quella divina, incondizionata, immutabile. In questo modo l’Assoluto è diventato trascendente, incondizionato. Il pensiero è diventato devozione, sottomissione della singola coscienza a Dio. Non a caso, il culmine di questa filosofia della subordinazione schiavizzata è l’ascetismo che concepisce la liberazione dalla povertà del nostro corpo attraverso il ricongiungimento con l’immutabile, assolutezza di Dio.
Ma in questa fusione la coscienza si riconosce lei stessa come coscienza assoluta.
Tuttavia la lotta tra servo e padrone, ovvero tra due soggetti, è una lotta tra due autocoscienze (la coscienza non è più di fronte all’oggetto): l’autocoscienza è di fronte a un’altra autocoscienza.
L’autocoscienza è desiderio, appetito, vuole tutto e per questo si scontra con l’altro, con il quale ingaggia una contesa immaginaria, proprio perché vuole le stesse cose.
È questa la condizione della coscienza infelice, ovvero una condizione di alienazione e di scissione. Tale condizione di infelicità è necessaria perché funge per l’uomo come spinta alla ricerca di quel senso inafferrabile, che ci mette in moto tutte le volte e che si sostanzia in un ideale di armonia perduta, che funge da carota per il perpetuarsi dell’esperienza tragica dell’aspirare alla riunificazione con Dio, alla conciliazione finale del molteplice con l’Uno.
Hegel nega il cristianesimo ma lo riassorbe poi nel procedere storico, l’Aufhebung, il Superamento è possibile con la fusione dell’autocoscienza con il reale.
Così, essere e pensiero, reale e ragione si compenetrano, si fondo, si uniscono, si connettono tra loro. Il pensiero diventa pensiero dell’essere e l’essere è l’essere del pensiero.
Il pensiero sarà razionale quando non sarà fantasia, immaginazione, cioè quando sarà corrispondente con la realtà e la realtà sarà razionale e quindi non ci sarà mai niente nella realtà che non sarà afferrabile dal pensiero o estraneo ad esso. Questo è Hegel. È interessante sottolineare che in questo modo Hegel si distanzia dalla logica aristotelica, dalla logica classica che si muoveva da un punto di partenza a priori per arrivare ad una conclusione finale, infatti la logica della dialettica hegeliana si sostanzia in un flusso logico che da un punto di partenza passa alla negazione di questo punto senza annullarlo per poi concludere in una tesi finale, una sintesi, che comprende anche la parte negata. Quindi è una logica che si avvicina alla concretezza della realtà.