Se ne parla da un po’ ormai e mi chiedo se sia ancora utile continuare ad interrogarsi sulla posizione che la psicoanalisi ricopre nel panorama delle “terapeutiche”, nell’era della valutazione e della misurazione. Può essere utile forse se accettiamo l’idea di andare al di là della clinica, se accettiamo di partecipare al dibattito pubblico, entrando nello spazio collettivo della politica per soffermarci anche e forse soprattutto sugli effetti che questa potrebbe avere nella nostra pratica quotidiana.
Il rischio di una burocratizzazione del sapere e della clinica è quasi una certezza oggi e la psicoanalisi, con le sue pratiche e il suo sapere è messa spesso nell’angolo perché, così ripetono o lasciano intendere alcuni operatori del settore, non è una “metodologia vincente” e non lo è perché sono poche le prove scientifiche che ne dimostrano l’efficacia. Se possiamo attivarci per modificare leggi che riteniamo ingiuste, è molto difficile opporsi alle medie statistiche se a queste viene dato valore in primis scientifico e di conseguenza politico, visto che c’è sempre più intesa tra il sapere scientifico fondato sulla retorica delle evidenze e il potere politico. Se la norma diventa legge, la devianza diventa un fattore sociale da correggere.
Sulla scia di Lacan, Miller ci inviata a non indietreggiare di fronte alla possibilità che la psicoanalisi sia senza valore scientifico, nel senso di scarsamente performante rispetto alle terapeutiche che scendono nell’arena delle misurazioni: “La pratica lacaniana non può avere altro principio, se essa si distingue dalle altre, che quello secondo cui ‘fallisce’. La pratica lacaniana fallisce. […] Tale fallimento è la manifestazione del rapporto con l’impossibile”.[1] Infondo, il significante della padronanza è quello della suggestione, del governo di sé e al “padrone” interessa solo che il sistema funzioni, non è interessato al desiderio del soggetto, è interessato alla sua resilienza. Se il sintomo è un disturbo (disorder)ciò che esso può insegnarci sul soggetto, il suo dire, non ha posto nella “macchina dei saperi”, macchina che tende a preservarsi negli ingranaggi che devono girare senza fermarsi, per alimentare quella felicità che si ritiene raggiungibile grazie all’applicazione protocollare delle sue regole. È la stessa ideologia al servizio del ciclo di produzione e consumo.
Il discorso della scienza lascia intendere che prima o poi potrà darci il più-di-godere, permettendoci con il sapere di arrivare al piccolo a, all’unità, alla perfezione, alla pace dei sensi, al godimento perfetto, alla condizione di assolutezza (S1/a). Su questa scia, “il mercato dei saperi” fissa obiettivi via via sempre più irraggiungibili, basti pensare al transumanesimo che, avvalendosi della Brain Computer Interface, usa le scoperte scientifiche e tecnologiche col fine di potenziare l’universo sensoriale per poter così evadere dalla prigione dei nostri limiti biologici.
Nel sistema delle valutazioni sanitarie non è importante cosa desidera il soggetto, è importante che funzioni, che abbia il possesso delle sue facoltà, che sia guarito. A sostegno di ciò, i saperi universitari, S2 che in verità celano ancora l’S1 del potere, ripetono un sapere che punta ad una condizione priva enigmaticità e soggettivazione, un sapere in grado di prevedere tutto, che non deve mancare in niente. Il discorso dei “saperi ufficiali”, accessibile ormai a tutti, nasconde dietro l’ideale di un sapere definitivo, conchiuso. Un sapere-Tutto senza inconscio: è la condizione per la quale tutto il sapere accumulato colmerebbe l’impossibile a dirsi del proprio desiderio (S2/$).
Dal canto suo, la pratica lacaniana, facendo emergere la dimensione di ciò che inganna e illude il soggetto, manipolato a volte anche dall’opinione pubblica e dai mass-media, può avere oggi anche una funzione emancipativa che va al di là della cura. Essa infatti puntando alla differenza assoluta, all’al-di-là di ogni identificazione rappresenta un’alternativa all’ideologia che punta a plasmare il soggetto, secondo i canoni della norma che richiama all’ordine il disordine del sintomo.
La prospettiva lacaniana punta alla disidentificazione: S1, dalla posizione di comando, passa a quella di scarto. Tuttavia, una comunità di psicoanalisti non potrebbe esistere senza l’S1 dell’ideale della psicoanalisi (Teoria di Torino). La scommessa, in questo caso, è che possa esistere una formazione collettiva dove i soggetti che la compongono conoscono la natura dei sembianti ma allo stesso tempo si riconoscono in un ideale, un ideale con il quale ciascuno, a partire dalla propria solitudine soggettiva, possa misurarsi.
Il percorso analitico isola l’S1 che orienta il
soggetto nell’inconscio: “ero così, ecco cosa mi governava” e una
volta isolato, esso non dovrebbe più attirare a sé il soggetto. Ecco il sapere
offerto dalla psicoanalisi, ecco la sua politica: il sapere che prende il posto
della verità, un sapere diverso da quello prodotto dalla burocrazia o dalla
tecnica, è un sapere che dice qualcosa della verità del soggetto, un sapere che
prima non sapevo, un sapere nuovo.
[1] J.-A. Miller, Una fantasia [2004], in La psicoanalisi, 38, 2005, p. 24.