Rappresentazione simbolica della durata (22/40)

L’idea di una serie reversibile, o semplicemente di un certo ordine di successione nel tempo, comporta di per sé la rappresentazione dello spazio.

Se immaginiamo una linea retta infinita e su di essa un punto materiale A che si sposta, ed immaginiamo che questo punto prenda coscienza di sé stesso, potremmo dire che esso sentirebbe di star cambiando perché si muove: avvertirebbe una successione, ma questa successione avrebbe la forma di una linea a condizione che A riuscisse, primo, a sollevarsi al di sopra della linea, secondo, a percorre e percepire simultaneamente più punti giustapposti di essa.

Ciò si fonda sull’idea di spazio, ed è nello spazio che “vedrebbe” svolgersi i cambiamenti che subisce.

Nella giustapposizione degli stati mentali, formiamo una linea, facciamo intervenire l’idea di spazio.

Se ipotizzassimo che il nostro punto cosciente A non ha l’idea di spazio, «la successione degli stati attraverso cui passa non potrà assumere per esso la forma di una linea; le sue sensazioni si aggiungeranno invece dinamicamente le une alle altre, organizzandosi tra loro come le note di una melodia dalla quale ci lasciamo cullare».[i]

I nostri stati di coscienza assumono, questa è la loro più naturale tendenza, la forma di una molteplicità numerica, dispiegandosi in uno spazio omogeneo. Essi diventano sempre più immobili, inerti. Acquisiscono una forma sempre più impersonale. I nostri stati di coscienza non sono quantificabili, né molteplici. Essi sono pura qualità eterogenea e non hanno nessuna estensione o quantità, essi sono pura qualità.[ii]


[i] Bergson H., Saggio sui i dati immediati della coscienza, Editori La Terza, Milano, 2002, p. 68. Per meglio chiarire questo punto riporto qui di seguito fedelmente uno dei passaggi più celebri del pensiero di Bergson: «Quando per esempio dico che è appena trascorso un minuto intendo con ciò che un pendolo che batte i secondi ha eseguito sessanta oscillazioni. Se mi rappresento queste sessanta oscillazioni in un solo colpo e grazie ad un’unica appercezione dello spirito, escludo per ipotesi l’idea di una successione: in questo caso non penso ai sessanta battiti che si succedono ma a sessanta punti di una linea fissa, ciascuno dei quali simbolizza una oscillazione del pendolo. Se invece voglio rappresentarmi queste sessanta oscillazioni in successione senza modificare in nulla il loro modo di prodursi nello spazio dovrò pensare a ciascuna oscillazione escludendo il ricordo della precedente, poiché lo spazio non ne ha conservato alcuna traccia: ma con ciò stesso mi condannerò a rimanere senza posa ne presente; rinuncerò a immaginare una successione o una durata. E se infine conservo insieme all’immagine dell’oscillazione presente il ricordo all’oscillazione che la prevedeva, accadrà che avrò giustapposto le due immagini, e allora richiamo nella nostra prima ipotesi; oppure che le avrò percepite l’una nell’altra compenetrate e organizzate fra loro come le note di una melodia, in modo da formare ciò che chiameremo una molteplicità indistinta o qualitativa, senza alcuna somiglianza con il numero: avrò allora ottenuto l’immagine della durata pura, ma al tempo stesso avrò completamente abbandonato l’idea di un mezzo omogeneo o di una qualità misurabile. Interrogando accuratamente la coscienza, si riconoscerà che essa procede così ogni qual volta si astiene dal rappresentare simbolicamente la durata». Bergson H., Saggio sui dati immediati, op. cit., p. 69.

[ii] “L’immaginazione di colui che sogna, isolato dal mondo esterno, riproduce in semplici immagini, facendone a mo’ suo la parodia, quel lavoro che nelle ragioni più profonde della vita intellettuale si compie senza posa sulle idee. Presi in se stessi, gli stati di coscienza profondi non hanno alcun rapporto con la quantità; sono pura qualità e si mescolano in modo tale che no si può dire se si tratta di uno solo o di molti e nemmeno analizzarli da questo punto di vista senza immediatamente snaturarli.” H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaele Cortina Editori, Milano, 2002, p. 87