Lacan studia il caso di una donna che sente l’allucinazione acustica “troia”. E sarà proprio da questo caso che avvierà il suo lavoro sulla questione dell’oggetto. Per lo psicoanalista francese questa è una voce che dice nel reale ciò che non era stato simbolizzato. La donna ode la parola “troia” indirizzata a lei. È una parola che la riguarda sebbene non sappia in che modo. “Nel luogo in cui l’oggetto indicibile è rigettato nel reale si fa sentire una parola”, parola che emerge: “al posto di ciò che non ha nome […]. Questo esempio è stato portato solo per cogliere nel vivo che la funzione di irrealizzazione non è tutta nel simbolo”[1].
La metafora paterna produce nel soggetto una significazione fallica. Infatti la metafora paterna, porta una barra sulla Madre come significante del desiderio proibito e istituisce il soggetto come sufficientemente regolato nel rapporto con la propria pulsione. Ma non tutto della pulsione confluisce nel simbolico. C’è un resto che indica quella parte di godimento proibito riconducibile all’oggetto perduto di cui parla Freud, oggetto quest’ultimo che è la matrice dell’oggetto di godimento proibito, è il das Ding freudiano che Lacan articolerà nelle varie forme dell’oggetto a. Lacan aggiunge agli oggetti freudiani – oggetto orale e l’oggetto anale – altri due: lo sguardo e la voce. In una nota nel 1966 alla Questione preliminare, egli affermerà che, solo mediante l’estrazione dell’oggetto a che il campo della realtà diventa sostenibile e riceve il suo quadro. Solo grazie all’estrazione dell’oggetto pulsionale è possibile l’emersione del fantasma. Nella psicosi alla non estrazione dell’oggetto a corrisponde anche la presenza di questo oggetto nel campo della realtà: lo sguardo diventa visibile, la voce udibile, che sono colti nella realtà in quanto oggetti. Lo psicotico infatti è perseguitato dall’oggetto sguardo e l’oggetto voce. La mancata estrazione dell’oggetto a non consente la localizzazione del godimento, quella localizzazione che si produce a seguito dell’iscrizione della funzione fallica. È per questo motivo che nella psicosi il corpo è permeato da un godimento mortifero, quello che Freud chiama pulsione di morte. Lo psicotico ha l’“oggetto in tasca”. Il nevrotico ha già nella sua tasca un S2 con il quale difendersi dal godimento. Il nevrotico ha un sapere “prêt-à-porter”. Ogni volta che si trova con un buco, una mancanza di sapere, risponde sempre con il suo S2. E’ la maniera che lui ha per difendersi contro il reale. È un automaton, una “self-operating-machine”: quando il soggetto ha fatto la prima esperienza traumatica, ha risposto a questa situazione con un sintomo e tutte le volte risponde allo stesso modo. È una maniera di difendersi dal reale dell’angoscia. Il sintomo è stato costruito con un’identificazione fondamentale al nome del padre. Il nome del padre è già una specie di patto, un contratto per limitare il godimento. È il soggetto che è in difficoltà con la rivendicazione pulsionale. Il significante incarna l’enigma del soggetto. Il significante include la mancanza. Non si deve forzare mai il soggetto a diventare enigmatico se non è già così. È questo il caso del soggetto psicotico che ha l’oggetto in tasca. Non è separato dall’oggetto. Nel maneggio del transfert da parte dell’analista, questo oggetto non è stato sottratto a livello dell’uso, della funzione: voce, sguardo, anale e orale. L’oggetto è ritagliato, ma rimane attaccato al corpo. L’analista deve caricarlo su di sé, deve portarlo sulle spalle. L’analista deve farsi carico di questo oggetto. Un investimento transferale può prendere l’analista come oggetto. Ma in realtà, con un oggetto nella tasca, non c’è un investimento transferale possibile. Per investire un partner qualunque, è necessario che la tasca sia vuota. Bisogna tirar fuori l’oggetto dalla tasca. Come fare per mettere fuori della tasca l’oggetto? Lacan non ci dice come fare. Bisogna che l’analista inventi qualcosa. È necessario riuscirci senza che la voce dell’analista diventi persecutoria.
[1] Jacques Lacan, op. cit., p. 531, 532