Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 85-86.
Qui l’arte si mescola con la scienza. Leonardo da Vinci è contemporaneamente scienziato, per le sue costruzioni diottriche, e artista. Il trattato di Vitruvio sull’architettura non è lontano. Nel Vignola e nell’Alberti troviamo un interrogarsi progressivo sulle leggi geometrali della prospettiva, ed è intorno alle ricerche sulla prospettiva che si incentra un interesse privilegiato per l’ambito della visione – di cui non possiamo non vedere la relazione con l’istituzione del soggetto cartesiano che è anch’esso una sorta di punto geometrale, di punto di prospettiva. E, attorno alla prospettiva geometrale, il quadro – funzione cosi importante su cui dovremo tornare – si organizza in un modo completamente nuovo nella storia della pittura.
Rifatevi ora, vi prego, a Diderot. La Lettera sui ciechi per coloro che vedono vi renderà sensibili al fatto che questa costruzione lascia totalmente sfuggire ciò che è in gioco nella visione. Poiché lo spazio geometrale della visione – pur includendo in esso quelle parti immaginarie dello spazio virtuale dello specchio, a cui, come sapete, dò molta importanza – è perfettamente ricostruibile, immaginabile, da un cieco.
Nella prospettiva geometrale si tratta solo di reperimento dello spazio, non si tratta di vista. Il cieco può perfettamente concepire che il campo dello spazio da lui conosciuto, e conosciuto come reale, possa essere percepito a distanza, e come simultaneamente. Per lui si tratta solo di afferrare una funzione temporale, l’istantaneità. Guardate la diottrica di Cartesio, in cui l’azione degli occhi è rappresentata come l’azione congiunta di due bastoni. La dimensione geometrale della visione non esaurisce, dunque, tutt’ altro!, ciò che il campo della visione come tale ci propone come relazione soggettivante originale.
E ciò che fa l’importanza del rendere ragione dell’uso invertito della prospettiva nella struttura dell’anamorfosi.
E Durer stesso che ha inventato l’apparecchio per stabilire la prospettiva. Lo sportello di Durer è paragonabile a ciò che pocanzi mettevo tra me e il quadro, cioè una certa immagine, o più esattamente un tela, un traliccio che attraversano le linee rette – che non sono necessariamente raggi ma anche fili – che collegheranno ogni punto che mi trovo a vedere nel mondo, con un punto in cui il tela sarà attraversato da questa linea.
Dunque, è per stabilire un’immagine prospettica corretta che si è istituito lo sportello. Se lo uso a rovescio, avrò il piacere di ottenere, non la restituzione del mondo che c’è in fondo, ma la deformazione, su un’ altra superficie, dell’immagine che avrò ottenuta sulla prima, e potrò attardarmi, come in un gioco delizioso, in quel procedimento che fa apparire a volontà ogni cosa in uno stiramento particolare.
Vi prego di credere che un incanto simile ha avuto un proprio posto a suo tempo. Il libro di Baltrusäitis vi dirà le polemiche furiose sorte da queste pratiche e che sono sfociate in opere di pregio. Il convento dei Minimi, attualmente distrutto, che sorgeva dalle parti di rue des Tournelles, aveva su una lunghissima parete di una delle sue gallerie, rappresentante come per caso san Giovanni a Patmos, un quadro che doveva essere visto attraverso un buco perché il suo valore deformante raggiungesse il suo apice.
La deformazione può dare adito – non era il caso di questo particolare affresco – a tutte le ambiguità paranoiche. E ne è stato fatto ogni uso, da Arcimboldo sino a Salvador Dali. Dirò persino che questa fascinazione complementa quanto della visione si lasciano sfuggire le ricerche geometrali sulla prospettiva.