Goffman introduce il concetto di “primary framework” per descrivere quell’elemento centrale in ogni gruppo sociale, quel codice specifico che lo distingue dagli altri gruppi, per esempio, nel gruppo dei barboni, il primary framework corrisponde al il rifiuto sistematico del lavoro. Goffman considera i frameworks primari come il primo passo per “capire” una situazione e, conseguentemente, per potersi orientare con cognizione di causa al suo interno. Senza queste strutture primarie saremmo impossibilitati a “muoverci” nel quotidiano: non sapremmo “dove” ci troviamo. Il nostro “lavoro di inquadramento” si riferisce ad una serie di sforzi reiterati di riconoscere che cosa si trova o sta succedendo in un particolare contesto. Immaginiamoci di dover creare un contesto. Cosa useremmo? Quali sono gli elementi necessari per poterlo creare? Il tempo, lo spazio, un parlante, un uditorio (l’insieme di persone a cui il parlante si rivolge o potrebbe rivolgersi), gli oggetti indicanti l’insieme degli oggetti che possono identificare un certo contesto, un discorso precedente di riferimento per i parlanti. Il framework ci consente d’inquadrare la situazione, fornisce cioè una “chiave” di lettura pertinente con una data circostanza.
Il concetto di key è introdotto da Goffman per spiegare come noi comprendiamo la realtà. Il key rappresenta quel gruppo di convenzioni, sulla base del quale, una data azione, già significante perché fondata su una qualche struttura primaria (framework), viene trasformata dai partecipanti in qualcos’altro. Il key consente di trasformare l’attività che stiamo esperendo in un’attività differente. Immaginiamo un bambino che gioca a fare l’indiano, bastano un grido o un certo tipo di abbigliamento per sentirsi nell’antico West a dare la caccia agli Yankee. Sapremo benissimo che non è la realtà ma un gioco, eppure, quando ci capita di partecipare a giochi di questo genere, fingendoci “prigionieri” o “alleati”, non facciamo altro che applicare la stessa key a quella situazione: la mettiamo cioè “in chiave”. Il key è un elemento del framework. La struttura primaria ci consente d’incorniciare la situazione, e cioè di capire dove ci troviamo. Il key ci permette di “entrare dentro” la situazione cogliendone le implicazioni e le sfumature contenute in essa. Il key ci aiuta a determinare cos’è che pensiamo stia realmente accadendo. L’operazione di “messa in chiave” permette di tradurre solo ciò che è già dotato di senso in termini di un framework primario.
Le attività incorniciate nei termini di una struttura primaria si definiscono reali, cioè esse stanno accadendo realmente. La “messa in chiave” o keying di queste azioni, indica, invece, qualcosa che non sta effettivamente accadendo, che non è reale. I bambini che giocano a fare gli indiani, non tirano veramente delle frecce o fanno male, stanno solo giocando. Inoltre la “messa in chiave” può essere ulteriormente trasformata. Goffman in questo caso parla di rekeying, e cioè di un’operazione diretta ad una “messa in chiave” e non su qualcosa definito nei termini di un framework. È comunque necessario che la struttura primaria ci sia ma sarà la “messa in chiave” di quella struttura a costruire il materiale che viene trasposto. Ogni frame potenzialmente potrebbe includere un rekeying, un’aggiunta di uno strato di risemantizzazione. Avremo quindi una stratificazioni più profonde e un’altre più esterne, a margine del frame.
Se non c’è un keying dell’attività, questa verrà definita soltanto nei termini di struttura primaria. Una messa in chiave può quindi contenerne un’altra e un’altra ancora e così via, ab libitum; la realtà in questo modo diventa simile alle scatole cinesi in cui la più grande ne contiene una più piccola e così via fino alla più piccola di tutte. Il limite delle nostre possibili chiavi di letture è la pura organicità, la biologia e la pura materialità delle cose.
La messa in chiave di una situazione ci consente di lasciare momentaneamente il mondo quotidiano e “vivere” nella dimensione di realtà che ci siamo temporaneamente creati.