Fonte: Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 300-305. Repubblica, 475 e-480 a
1 [475 e] […] [Glaucone] Ma quali sono per te i veri filosofi?, chiese. – Quelli, feci io, che amano contemplare la verità. – Anche in questo, ammise, hai ragione; ma che intendi dire? – Non è facile rispondere, ripresi, davanti a un’altra persona, ma credo che sarai d’accordo con me su questo. – Su che cosa? – Che bello e brutto, essendo opposti, [476 a] sono cose distinte. – Come no? – E se sono due, ciascuna di esse non sarà anche una? – Giusto anche questo. – Lo stesso discorso vale per il giusto e l’ingiusto, per il bene e il male, e per ogni altra idea: ciascuna in sé è una, ma, comparendo dovunque in comunione con le azioni, con i corpi e l’una con l’altra, ciascuna si manifesta come molteplice. – Hai ragione, disse. – Ecco dunque la mia distinzione, feci io; da un lato metto gli individui che or ora dicevi amatori di spettacoli, amanti delle arti e uomini di azione; dall’altro quelli di cui stiamo [b] parlando, gli unici che si potrebbero dire rettamente filosofi. – Come dici?, chiese. – Secondo me, risposi, gli amanti delle audizioni e degli spettacoli amano i bei suoni, i bei colori, le belle figure e tutti gli oggetti che risultano composti di elementi belli; ma il loro pensiero è incapace di vedere e di amare la natura della bellezza in sé. – È cosí, appunto, rispose. – E coloro che sono capaci di giungere alla bellezza in sé e di vederla unicamente come [c]bellezza non saranno rari? – Certamente. – Chi dunque riconosce che esistono oggetti belli, ma non crede alla bellezza in sé e, pur guidato a conoscerla, non è capace di tenere dietro alla sua guida, ti sembra che viva in sogno o sveglio? Su, esamina. Sognare non vuole dire che uno, sia dormendo sia vegliando, crede che un oggetto somigliante a una cosa non è simile, ma identico a ciò cui somiglia? – Io direi proprio, fece, che una tale persona sta sognando. – E chi invece crede all’esistenza del bello in sé ed è [d] capace di contemplare sia questo bello sia le cose che ne partecipano, e non identifica le cose belle con il bello in sé né il bello in sé con le cose belle, costui ti sembra che viva sveglio o in sogno? – Sveglio, certamente, rispose. – E il suo pensiero, in quanto pensiero di uno che conosce, non avremmo ragione di chiamarlo conoscenza? e quello di un altro, in quanto pensiero di uno che opina, opinione? – Senza dubbio. – E se costui al quale attribuiamo opinione e non conoscenza, si arrabbiasse con noi e [e] sostenesse che non diciamo il vero? Potremo un po’ calmarlo e persuaderlo con le buone, nascondendogli la sua infermità mentale? – Sí, rispose, è nostro dovere. – Su dunque, esamina che cosa gli diremo; o vuoi che, dicendogli che nessuno gli invidia ciò che eventualmente sappia, e che anzi saremmo lieti di trovare chi sappia qualcosa, lo interroghiamo cosí: “Su, rispondi a questa nostra domanda: chi conosce, conosce qualcosa o niente?”. Rispondimi tu al suo posto. – Risponderò, disse, che conosce qualcosa. – Una cosa che è o una che non è? – Che è: come potrebbe conoscerne una che non è? [477 a] – Ecco dunque un punto bene acquisito, anche se piú volte ripetessimo il nostro esame: ciò che è in maniera perfetta è perfettamente conoscibile, ma ciò che assolutamente non è, è completamente inconoscibile. – Conclusione perfettamente soddisfacente. – Bene: ma se una cosa è tale da essere e non essere nello stesso tempo, non sarà intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è in nessun modo? – Intermedia. – Ora, la conoscenza non si riferisce a ciò che è, e la non conoscenza, necessariamente, a ciò che non è? E per questa forma intermedia non si deve cercare anche qualcosa di intermedio [b] tra l’ignoranza e la scienza, sempre che esista qualcosa di simile? – Senza dubbio. – E l’opinione, diciamo, è qualcosa? – Come no? – Una facoltà diversa dalla scienza o la medesima? – Diversa. – Quindi, a una cosa è ordinata l’opinione e a un’altra la scienza: ciascuna secondo la facoltà sua propria. – Cosí. – Ora, per sua natura la scienza non ha per oggetto ciò che è, ossia conoscere come è ciò che è? Mi sembra anzi che occorra una distinzione preliminare, cosí. – Come?
2 [c] – Definiremo le facoltà un genere di enti che permettono, sia a noi sia a qualunque altro soggetto che possa, di fare ciò che possiamo. Dico, ad esempio, che alle facoltà appartengono la vista e l’udito, se pur comprendi quale specie intendo dire. – Ma sí che comprendo, rispose. – Senti dunque che cosa penso delle facoltà. Di una facoltà io non vedo né colore né figura alcuna né alcuna simile proprietà, come invece la vedo di molte altre cose che mi basta guardare per definirle fra me, queste in un modo, quelle in un altro. Quanto alla facoltà, [d] ne guardo soltanto l’oggetto e l’effetto, e in questa maniera a ciascuna facoltà ho dato il suo nome: questa, ordinata all’identico oggetto e dotata dell’identico effetto, la chiamo identica; quella, ordinata a un oggetto diverso e dotata di diverso effetto, la chiamo diversa. E tu, come fai? – Cosí, disse. – Torniamo dunque al punto, mio ottimo amico, ripresi. La scienza, per te, è una facoltà? O come la classifichi? – Cosí, rispose, anzi tra tutte le facoltà è la piú [e] potente. – E l’opinione, la riporteremo a una facoltà o a un’altra specie? – Per nulla, disse; perché ciò che ci permette di opinare non è altro che opinione. – Ma poco prima convenivi che scienza e opinione non s’identificano. – Già, rispose, come potrebbe mai chi ha senno identificare l’infallibile con quello che non lo è? – Bene, feci io; noi siamo evidentemente d’accordo che [478 a] l’opinione differisce dalla scienza. – Sí, ne differisce. – Ora, ciascuna di esse, dato che diverso è il suo potere, non ha naturalmente un oggetto diverso? – Per forza. – E la scienza non ha per oggetto ciò che è, ossia conoscere come è ciò che è? – Sí. – E l’opinione quello, diciamo, di opinare? – Sí. – Conosce forse l’identico oggetto della scienza? e l’identico sarà conoscibile e insieme opinabile? O è una cosa impossibile? – Impossibile, rispose, in base a quello che s’è convenuto: se una facoltà, per sua natura, ha un oggetto e un’altra un altro, e se opinione e scienza sono ambedue facoltà e ambedue, come diciamo, [b] diverse, queste premesse non ci autorizzano a concludere per l’identità di conoscibile e opinabile. – E se il conoscibile è ciò che è, l’opinabile non sarà diverso da ciò che è? – Diverso. – Ora, l’opinione opina forse ciò che non è? O è pure impossibile opinare ciò che non è? Su, rifletti. Chi ha un’opinione non la riferisce a una cosa? O è possibile avere un’opinione anche senza riferirla a un oggetto? – Impossibile. – Ma chi ha un’opinione l’ha di una cosa almeno? – Sí. – D’altra parte, a rigore, si potrebbe dire che ciò che non è, non è una cosa, ma è nulla? – Senza dubbio. – Però a ciò che non è, non abbiamo dovuto per forza assegnare l’ignoranza, e a ciò che è, la conoscenza? – Esattamente, disse. – Allora, l’opinione non opina né ciò che è né ciò che non è. – No. – E l’opinione non potrà dunque essere né ignoranza né conoscenza. – Sembra di no. – È forse al di fuori di esse, superando in chiarezza la conoscenza o in oscurità l’ignoranza? – Non è né questo né quello. – E allora, feci io, l’opinione ti sembra piú oscura della conoscenza, ma piú luminosa dell’ignoranza? [d] – Sí, certo, rispose. – E sta tra le due? – Sí. – L’opinione sarà dunque intermedia tra scienza e ignoranza. – Precisamente. – Ma prima non affermavamo che, se una cosa risultasse, per modo di dire, nel medesimo tempo come essere e non essere, sarebbe intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è affatto? e che non sarebbe l’oggetto né della scienza né dell’ignoranza, ma di ciò che risultasse a sua volta come intermedio tra l’ignoranza e la scienza? – Giusto. – E ora appunto non risulta intermedia tra le due quella che chiamiamo opinione? – Sí, risulta.
3 [e] – Ci rimane dunque da scoprire, sembra, quest’altro elemento, che partecipa insieme dell’essere e del non essere e che, rettamente parlando, non si potrebbe dire né l’uno né l’altro in senso assoluto, affinché, se si manifesterà, possiamo dire a buon diritto che è l’opinabile, e assegnare quindi ai termini estremi gli estremi, agli intermedi gli intermedi; non è cosí? – Cosí. – Con queste premesse, dirò, mi dica e mi risponda quel bravo [479 a] uomo che non crede al bello in sé né ad alcuna idea del bello in sé che permanga sempre invariabilmente costante; e che invece ammette la molteplicità delle cose belle; quell’amatore di spettacoli che non sopporta in nessun modo chi eventualmente gli vada a parlare dell’unicità del bello e del giusto, e cosí via. Di queste molte cose belle, diremo, ce n’è qualcuna, nostro ottimo amico, che non ti apparirà brutta? e tra le giuste qualcuna che non ti apparirà ingiusta? e tra le pie qualcuna che non ti apparirà empia? – No, disse, è inevitabile che le stesse [b] cose belle sotto qualche aspetto appaiano anche brutte, e cosí tutte le altre che mi chiedi. – E le molte cose doppie? Non appaiono tanto mezze quanto doppie? – Sicuro. – E per le cose grandi e piccole, e per le leggere e pesanti si useranno di piú questi nomi che diciamo che i nomi opposti? – No, rispose, ma per ciascuna andranno bene sia questi sia quelli. – E ciascuna di queste molte cose, piuttosto che non essere, è forse ciò che la si dice essere? – Questo, disse, sembra uno di quei giochi a doppio senso che si fanno nei banchetti, e quell’enigma che si propone [c] ai bambini sull’eunuco e sul colpo tirato al pipistrello, dove c’è da indovinare con quale oggetto e dove lo colpisce. Anche queste cose sembrano a doppio senso, e di nessuna di esse si può avere certezza che sia o non sia, né che sia le due cose insieme, né alcuna delle due. – Ebbene, feci io, sai ciò che ne dovrai fare? Dove meglio le potrai collocare che tra l’essere e il non essere? Perché non appariranno [d] piú scure di ciò che non è, in quanto non ne superano il grado di non essere, né piú luminose di ciò che è, in quanto non ne superano il grado di essere. – Verissimo, disse. – Allora, sembra, abbiamo scoperto che i molti luoghi comuni della maggioranza a proposito della bellezza e di tutto il resto vagano, in certo modo, nella zona intermedia tra ciò che assolutamente non è e ciò che assolutamente è. – L’abbiamo scoperto. – Ma prima avevamo convenuto che, se una simile cosa fosse venuta fuori, bisognava definirla opinabile, ma non conoscibile, perché a coglierla vagante nella zona intermedia è la facoltà intermedia. – Sí, d’accordo. – Allora, coloro che contemplano la [e] molteplicità delle cose belle, ma non vedono il bello in sé e non sono capaci di seguire chi colà li guidi, e che contemplano la molteplicità delle cose giuste, ma non il giusto in sé, e cosí via, diremo che su tutto hanno opinioni, senza però conoscere niente di quello che opinano. – È una conclusione necessaria, disse. – E coloro che contemplano le singole cose in sé, sempre invariabilmente costanti? Non diremo che conoscono e non opinano? – conclusione necessaria anche questa. – E non diremo pure che essi fanno festa e amano gli oggetti della conoscenza, e gli altri [480 a] invece quelli dell’opinione? Non ricordiamo di avere detto che questi ultimi amano e apprezzano belle voci, bei colori e simili cose, ma non tollerano affatto che il bello in sé sia una cosa reale? – Ce ne rammentiamo. – Sbaglieremo dunque se li chiameremo amanti d’opinione, cioè filodossi, anziché amanti di sapienza, cioè filosofi? E se la prenderanno molto con noi se li definiremo cosí? – No, se mi danno retta, rispose; ché non è lecito prendersela per ciò che è vero. – E quelli che amano ciascuna cosa che è, essa per se stessa, li dobbiamo chiamare filosofi, ma non filodossi? – Senz’altro. […]