Fonte: Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 712-720. Platone, Simposio, 215a-222b.
1 Questo elogio di Socrate, o amici, mi proverò a farlo cosí, per immagini. Lui crederà che lo faccia per dire cose piú ridicole, ma l’imagine sarà per cogliere il vero, non per far ridere. Io dico cioè che costui è somigliantissimo a quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti figurano con zampogne e flauti, i quali, se li apri in due, mostrano dentro simulacri degli dèi. E dico ancora che lui assopmiglia al satiro Marsia; e che almeno nell’aspetto tu sia uguale a costoro, o Socrate, nemmeno tu potresti negarlo; e come somigli loro in tutto il resto, ascolta. Sei insolente, no? Se non consenti produrrò dei testimoni. E non flautista? Sí, e molto piú meraviglioso di Marsia. Costui almeno incantava gli uomini per mezzo dei suoi strumenti, con la potenza che gli usciva di bocca, e ancora fa cosí chi esegue le sue melodie – giacché quelle che suonava Olimpo le dico di Marsia che gliele ha insegnate. Dunque le sue melodie, sia che le esegua un flautista valente, sia una suonatrice da nulla, esse da sole, per la loro potenza divina, trasportando le anime in deliri e discoprono quali d’esse hanno bisogno degli dèi e d’essere iniziate. Ma tu sei diverso da lui solo in questo, che ottieni lo stesso effetto senza strumenti e con le nude parole. Noi, certo, quando ascoltiamo qualcun altro parlare, anche un bravo oratore, su altri argomenti, non ce ne importa nulla, per dirlo chiaro, di nessuno; ma quando si ascolta te o qualcun altro riporti, anche se è uno sciocco qualunque, i tuoi discorsi e li ascolti una donna, o un uomo, o un ragazzo, ne rimaniamo sbigottiti ed invasati. Io, sinceramente, o amici, se non fosse che potreste credermi ubriaco del tutto, vi direi giurando quali profonde emozioni ho provato ai discorsi di quest’uomo e provo tutt’ora. Perché quando lo ascolto, molto di piú che ai coribanti il cuore mi salta dentro e mi prendono le lacrime per effetto delle sue parole e vedo che anche moltissimi altri provano la stessa emozione. Ascoltando Pericle e altri bravi oratori, sentivo che parlavano bene, ma non soffrivo niente di simile, né l’anima mi tumultuava, né m’irritavo al pensiero di soggiacere come uno schiavo. Ma per questo Marsia qui spesso, sí, mi son trovato in tale stato da pensare di non poter piú vivere nelle condizioni in cui sono. E questo, o Socrate, non dirai che non è vero. Ancor oggi debbo riconoscere a me stesso che se soltanto fossi disposto a prestargli orecchio, non resisterei e proverei gli stessi effetti. Perché lui mi piega a confessare che, mentre difetto di mille cose, di me stesso non mi curo, ma m’occupo degli affari d’Atene. Facendomi violenza, distraggo le mie orecchie da lui, come dalle Sirene, e mi allontano fuggendo, perché non avvenga ch’io invecchi accoccolato vicino a lui. E solo di fronte a quest’uomo io ho provato, cosa che nessuno sospetterebbe in me, la vergogna di fronte a qualcuno. Ma io di lui solo provo vergogna perché riconosco in me stesso che non sono capace di controbattere che ciò che lui pretende non si debba fare; ma, appena mi allontano da lui, sono vinto dall’ambizione di onori pubblici. Lo tradisco come schiavo fuggitivo e lo abbandono, e quando lo vedo, mi assale vergogna per le cose che mi ha fatto riconoscere. E spesso sarei felice se non fosse piú tra i vivi! Ma so bene che se ciò avvenisse, ne sarei piú angosciato, cosí che non so proprio cosa farne di quest’uomo.
2 Proprio dalle melodie del flauto di questo satiro qui, io e molti altri abbiamo provato questi effetti. Ma ascoltate ancora come è simile a coloro ai quali l’ho confrontato e il meraviglioso potere che possiede. Perché, sappiatelo bene, nessuno di voi lo conosce! Ma io ve lo scoprirò giacché mi ci son messo. Voi vedete che Socrate è sempre in amore con le belle persone, gli è sempre intorno e ne è tutto turbato, poi ignora tutto e non sa nulla… almeno all’apparenza!. E non è da sileno questo? Ma è tutto lui! Perché questa è la sua veste di fuori, come nel sileno scolpito; ma, apritelo dentro, e immaginate mai, miei cari bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che, se uno è bello, a lui non importa niente, ma lo sdegna quanto nessuno crederebbe, né gli importa se è ricco o possiede qualunque altra fortuna di quelle strabenedette dalla gente.. Lui ritiene che tutti questi possessi non valgono nulla e che noi siamo nulla: ve lo dico io e passa il suo tempo a far l’ingenuo e a prendersi gioco della gente: ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno ha mai visto i simulacri che ha dentro! ma io una volta li vidi e li sentii cosí divini e preziosi e cosí stupendi e meravigliosi che non mi rimase se non fare all’istante ciò che Socrate voleva. Ora, poiché credevo che egli prendesse sul serio la mia bellezza, pensai ch’ero ben fortunato ed avevo una straordinaria occasione, perché potevo, compiacendo Socrate, ascoltare tutto quanto lui sapeva. Perché della mia bellezza ero incredibilmente superbo. Pensato tutto questo, mentre prima solevo starmi con lui insieme a un servo e mai solo, da allora, congedato il servo, rimanevo solo con lui. Bisogna naturalmente che vi dica tutta la verità: state attenti e se mento, Socrate, sbugiardami. Lo incontravo, o amici, solo a solo e pensavo che presto mi avrebbe fatto quei discorsi che un amante fa al suo amore quando si trovino soli, e ne ero pieno di gioia. Ma di tutto ciò non avveniva nulla: discorreva con me secondo il solito, e trascorsa insieme la giornata, mi piantava e partiva. Allora lo invitai a far ginnastica insieme ed io mi esercitavo con lui sperando che lí avrei concluso qualcosa. Ebbene egli faceva gli esercizi con me, e spesso la lotta, senza alcuno presente, e che debbo dire? non ne veniva fuori nulla. Visto che in questo modo non ci riuscivo, mi parve che fosse necessario attaccare quest’uomo con la violenza, e non smettere, dal momento che avevo cominciato, finché la faccenda non si fosse chiarita. Ed ecco che lo invito a cena proprio come un amante che tende la trappola al suo amore. Ma neppure in questo mi dette retta alla svelta, tuttavia col tempo si lasciò persuadere. Quando venne la prima volta, appena finito di cenare voleva andarsene, e per allora, vergognandomi, lo lasciai partire. Ma di nuovo ripetei la trappola, e dopo ch’ebbe cenato m’intrattenni a parlare con lui fino a notte inoltrata e, quando volle andarsene, lo convinsi a rimanere col pretesto che era tardi. Riposava dunque sul letto vicino al mio, lí dove aveva cenato: nella stanza non dormiva nessuno, solo noi. Fin qui il mio racconto andrebbe bene anche a raccontarlo a chicchessia; ma da qui in avanti non udreste il mio racconto se, innanzitutto, secondo il proverbio, il vino (con o senza fanciulli) non fosse veritiero; e poi mi sembra ingiusto tralasciare un cosí superbo atto di Socrate, ora che mi son messo a farne l’elogio. Ma ancora io mi sento come un uomo morso da una vipera: dicono cioè che chi l’ha subito non sia disposto a raccontare com’è stato se non ai compagni di sventura perché essi soli comprendono e possono scusare se sotto l’azione di quella sofferenza ne combina e ne dice d’ogni colore. Io pure, ferito dal morso piú straziante e nella parte piú dolorosa in cui si possa essere addentati… perché nel cuore, nell’anima o come lo si voglia chiamare, sono stato piagato e morso dai discorsi di filosofia che addentano piú selvaggi d’una vipera quando s’attaccano a un’anima giovane e non ignobile, e la inducono a fare e dire qualunque cosa… e poi vedo qui i Fedri, gli Agatoni, gli Eurissimachi, i Pausania, gli Aristodemi, gli Aristofani – e di lui, Socrate che dire? e quanti altri…? perché tutti siete accomunati dal delirio e dal furore bacchico per la filosofia… perciò mi starete tutti a sentire e scuserete i miei atti di allora e ciò che dico adesso. Ma i servi e chiunque altro ci sia profano e rozzo, mettetevi spesse porte alle orecchie.
3 Quando dunque, o amici, si spense il lume e i servi furono usciti, mi parve che non fosse il caso di fare il sottile con lui, ma di dirgli liberamente quello che pensavo. Cosí lo scossi e dissi: “Socrate, dormi?”. “No” mi rispose. “Sai cos’ho pensato?”. “Che cosa mai?” disse. “Ho pensato – risposi – che tu se l’unico amante degno che io abbia e vedo che esiti a dichiararti. Ora, io la sento cosí: ritengo che sarebbe del tutto stupido se non ti compiacessi anche in questo come in tutto quello di cui tu avessi bisogno, dei miei beni e dei miei amici. Per me nulla è piú importante che divenire quanto è possibile migliore, e io credo che per questo nessuno mi può essere di piú valido aiuto che te. E certo di fronte alla gente che sa mi vergognerei di non concedermi a un uomo come te, molto di piú che di fronte al volgo ignorante, se ti compiacessi”. Egli mi stava a sentire e poi, con quella solita aria innocente ed ironica, tutta sua: “Mio caro Alcibiade – disse – rischi di non essere affatto sciocco se per caso son vere le cose che dici di me e se c’è dio sa quale potere in me che ti potrebbe rendere migliore. Ecco tu vedresti in me una irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle tue forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con bellezza, miri a guadagnarci non poco alle mie spalle! Via, in cambio di una bellezza apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla lettera, di scambiare “oro con rame”. Ma, o beato, guarda meglio, che io non sia nulla e tu non te ne accorgi! Certo la vista della mente comincia a vedere piú acutamente quando quella degli occhi tende a declinare: e tu ci sei ancora lontano”. Lo ascoltai e poi: “Da parte mia, dissi, è cosí, e non ti ho detto niente di diverso da quello che penso. Decidi tu quel che sia meglio per te e per me”. “Cosí parli bene, rispose, perché avremo tempo per decidere e faremo ciò che ci parrà piú giusto in questa ed altre questioni”. Io naturalmente dopo quello che aveve udito e quello che avevo detti, lanciando per cosí dire i miei strali, credevo che egli fosse ferito. Mi rizzai e senza lasciargli dire piú nulla lo ricopersi con il mantello che avevo (poiché era inverno), e, sdraiatomi sotto questo suo solito gabbano, gettai le braccia attorno a quest’uomo veramente demoniaco e straordinario e giacqui con lui l’intera notte. E neppure adesso puoi dire, Socrate, che mento. Malgrado tutti questi miei sforzi, costui di tanto mi superò, sdegnò e derise la mia bellezza, e la offese … eppure credevo che valesse qualcosa, o giudici (ché voi siete giudici della superbia di Socrate) … ebbene, sappiatelo, lo giuro per gli dèi e per le dee, dormii con Socrate e mi levai né piú né meno che se avessi dormito col padre o con un fratello maggiore.
4 Dopo questo, come pensate che fosse il mio animo? Avere coscienza d’essere svilito da lui, ma dovere ammirarne il suo essere, la sua temperanza e la sua fortezza. Pensare d’essere capitato con un uomo quale mai certamente avrei piú potuto trovare cosí sapiente e forte. Cosicché non ero capace d’essere in collera né di privarmi della sua compagnia, né riuscivo a strologare come attirarlo a me. Perché sapevo perfettamente che alla ricchezza era molto piú invulnerabile, da ogni parte, che non Aiace alla spada, e nell’unica cosa con cui credevo di poterlo catturare, m’era sfuggito. Ed eccomi, senza una via d’uscita, ridotto schiavo da quest’uomo come nessuno mai da un altro non facevo che girargli attorno. Tutti questi fatti mi erano già accaduti, quando in seguito fummo insieme soldati al campo di Potidea, dove avevamo il rancio in comune. Per cominciare, nelle fatiche non solo era superiore a me, ma a tutti quanti. Quando, rimasti isolati in qualche parte, come avviene in guerra, ci capitava di dover sostenere la fame, gli altri, in confronto, non valevano nulla in resistenza. Ma nelle baldorie, invece, lui solo sapeva godere fino in fondo e a bere, – non che lo volesse, ma quando lo si forzava – vinceva tutti; ma ciò che piú meraviglia è che Socrate nessuno uomo mai l’ha visto ubriaco. E di ciò, credo, presto se ne avrà la prova. Quanto a sopportare l’inverno (perché là erano tremendi) faceva miracoli e, fra gli altri, una volta che c’era un gelo da inorridire e tutti stavano rintanati dentro o se uno usciva si avvolgeva in una incredibile quantità di panni, si calzava e si fasciava i piedi con feltri e pellicce, lui, con un tempo simile, se ne usciva con questa gabbanina che ha sempre, e scalzo camminava sul ghiaccio, piú tranquillo che gli altri tutti iscarponati. E i soldati lo sbirciavano credendo che li volesse mortificare.
5 E questo basti per tale argomento. “Ma che compí e sostenne il forte eroe”, una volta, laggiú al campo, merita ascoltarlo. Tutto assorto in qualche idea s’era piantato ritto lí, fino dall’alba, meditando; e poiché non ne veniva a capo, continuava, ritto in piedi, la sua ricerca. E già era mezzogiorno e alcuni uomini se n’erano accorti e meravigliati dicevano l’un l’altro: “Socrate se ne sta lí impalato dall’alba in un qualche pensiero”. Alla fine, alcuni Ioni, scesa la sera, dopo aver cenato – poiché allora era estate – portarono fuori i giacigli e si misero a riposare all’aperto e nello stesso tempo a controllare se stesse piantato là tutta la notte. Ed egli vi stette finché fu l’alba e si levò il sole. Allora si mosse e se ne andò dopo aver fatto la sua preghiera al sole. Se poi volete, eccolo nelle battaglie, perché è giusto riconoscergli anche questo. Quando ci fu la battaglia per la quale gli strateghi mi decorarono al valore, nessun altro mi salvò se non lui, che non volle abbandonarmi ferito: anzi portò in salvo le armi e me stesso. Ed io, o Socrate, anche allora pregai gli strateghi che premiassero te: né di ciò puoi biasimarmi né dire che sia falso. Ma gli strateghi, considerando il mio grado sociale, volevano insignire me, e tu stesso fosti piú sollecito di loro acché le insegne le avessi io invece che te. Ancora, amici, meritava davvero di vedere Socrate quando l’esercito si ritirava in rotta da Delio! Mi capitò appunto di essergli accanto, io a cavallo e lui a piedi come oplita. Si ritirava dunque, rotte le file, insieme a Lachete: ed io mi ci imbatto contro per caso. Appena li vedo li esorto a star sú d’animo e dico che non li abbandonerò. Qui davvero veder Socrate era spettacolo piú bello che a Poltidea. Io avevo meno da temere perché ero a cavallo, ma lui, innanzitutto vedevo quant’era superiore a Lachete in presenza di spirito; e poi mi pareva che anche là camminasse come qui, Aristofane, come tu dici “tutto gonfio e sbirciando di traverso” e squadrava con calma amici e nemici mostrando chiaro ad ognuno anche di lontano che se qualcuno avesse toccato quest’uomo, con gran forza si sarebbe difeso. Anche per questo si ritiravano sicuri lui e l’altro, perché coloro che hanno quest’animo in guerra, si può dire che non sono toccati, ma viene inseguito chi fugge in disordine. In molte altre cose e meravigliose si potrebbe lodare Socrate, ma di altre sue qualità si potrebbero dire le stesse cose anche di un altro, invece che egli non somigli ad alcuno fra tutti gli uomini antichi e moderni questa è la maggior meraviglia. Cosí le qualità di Achille si potrebbero assomigliare a quelle di Brasida e d’altri, e quelle di Pericle a Nestore e Antenore, e non sono i soli; e tutti gli altri potrebbero essere confrontati in questo modo. Ma un uomo come questo qui, con le singolarità sue e dei suoi discorsi, non lo si troverebbe che gli somigli neppur di lontano, a cercarlo fra gli uomini d’oggi né fra quelli di ieri; a meno che non lo si paragoni, non a uomini, ma a quelli che dicevo, ai sileni e ai satiri, lui e i suoi discorsi. Perché c’è ancora questo, che ho tralasciato all’inizio: i suoi discorsi sono quasi identici ai sileni che si aprono in due.
6 Chi dunque si mette a sentire i discorsi di Socrate, sulle prime li troverebbe del tutto ridicoli, tali sono le parole e le espressioni di cui s’avvolgono di fuori, qualcosa come la pelle d’un satiro insolente: parla di asini bastati, di certi fabbri, ciabattini e conciapelli e con le stesse voci pare sempre che ripeta le stesse cose. Cosicché ogni inesperto o sciocco potrebbe riderci sopra a questi discorsi. Ma chi li veda aperti e vi penetri dentro, troverà innanzitutto che essi soli, fra tutti i discorsi, hanno una mente, e poi che sono i piú divini e pieni di ogni immagine di virtú e tendono a ciò che v’è di piú grande, anzi a tutto quanto bisogna mirare per chi vuole diventare un uomo nobile e eccellente. Ecco, amici, ciò per cui lodo Socrate: quanto ai biasimi, ve li detti mescolati al resto, narrando come mi ha insultato. Ma non solo me ha trattato cosí, ma anche Carmide, figlio di Glaucone, Eutidemo di Diocle, e moltissimi altri che egli ha ingannato facendo l’innamorato con loro e poi finendo piuttosto come amato invece che amante. E queste cose le dico anche a te, Agatone, perché non ti lasci ingannare da costui, ma anzi reso esperto dalle mie sventure, te ne stia in guardia e perché non t’accada, come dice il proverbio “d’imparare a tue spese come uno sciocco”.