L’anima precipitata nel mondo

Tratto da Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 476-481 – Timeo, 27 c-31 b

1      [27 c] Timeo – Ma tutti, o Socrate, anche se poco assennati, nel tentare qualsiasi impresa, o piccola o grande, sempre invocano qualche dio. E noi che siamo per parlare dell’universo, com’è nato o se anche è senza nascimento, se proprio non deliriamo, è necessario che, invocando gli dèi e le dee, li preghiamo che ci facciano dire ogni cosa soprattutto secondo il loro pensiero e anche coerentemente [d] a noi stessi. E cosí siano invocati gli dèi: ma bisogna invocare anche l’opera nostra, affinché molto facilmente voi apprendiate e io pienamente vi dichiari quel che penso degli argomenti proposti. Prima di tutto, secondo la mia opinione, si devono distinguere queste cose. Che è quello che sempre è e non ha nascimento, e che è quello che nasce sempre e mai non è? L’uno è apprensibile [28 a] dall’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nello stesso modo; l’altro invece è opinabile dall’opinione mediante la sensazione irrazionale, perché nasce e muore, e non esiste mai veramente. Tutto quello poi che nasce, di necessità nasce da qualche cagione, perché è impossibile che alcuna cosa abbia nascimento senza cagione. Ora, quando l’artefice, guardando sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di cosí fatto modello, esprime la forma e la virtú di qualche opera, questa di necessità [b] riesce tutta bella: non bella invece, se guarda a quel ch’è nato, giovandosi d’un modello generato. Dunque, intorno a tutto il cielo o mondo o, se voglia chiamarsi con altro nome, si chiami pure cosí, conviene prima considerare quel che abbiamo posto che si deve considerare in principio intorno ad ogni cosa, se cioè è stato sempre, senz’avere principio di nascimento, o se è nato, cominciando da un principio. Esso è nato: perché si può vedere e toccare ed [c] ha un corpo, e tali cose sono tutte sensibili, e le cose sensibili, che son apprese dall’opinione mediante la sensazione, abbiamo veduto che sono in processo di generazione e generate. Noi poi diciamo che quello ch’è nato deve necessariamente esser nato da qualche cagione. Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti. Pertanto questo si deve [29 a] invece considerare intorno ad esso, secondo qual modello l’artefice lo costruí: se secondo quello che è sempre nello stesso modo e il medesimo, o secondo quello ch’è nato. Se è bello questo mondo, e l’artefice buono, è chiaro che guardò al modello eterno: se no – ciò che neppure è lecito dire –, a quello nato. Ma è chiaro a tutti che guardò a quello eterno: perché il mondo è il piú bello dei nati, e dio il piú buono degli autori. Il mondo cosí nato è stato fatto secondo modello, che si può apprendere con la ragione e con l’intelletto, e che è sempre nello stesso modo. E se questo sta cosí, è assoluta necessità che questo mondo [b] sia immagine di qualche cosa. Ora in ogni questione è di grandissima importanza il principiare dal principio naturale: cosí dunque conviene distinguere fra l’immagine e il suo modello, come se i discorsi abbiano qualche parentela con le cose, delle quali sono interpreti. Pertanto quelli intorno a cosa stabile e certa e che risplende all’intelletto, devono essere stabili e fermi e, per quanto si può, inconfutabili e immobili, e niente di tutto questo deve mancare. Quelli poi intorno a cosa, che raffigura quel modello ed è [c] a sua immagine, devono essere verosimili e in proporzione di quegli altri, perché ciò che è l’essenza della generazione, è la verità alla fede. Se dunque, o Socrate, dopo che molti han detto molte cose intorno agli dèi e all’origine dell’universo, non possiamo offrirti ragionamenti in ogni modo seco stessi pienamente concordi ed esatti, non ti meravigliare; ma, purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di quelli di qualunque altro, dobbiamo essere contenti, ricordandoci che io che parlo e voi, giudici miei, abbiamo [d] natura umana: sicché intorno a queste cose conviene accettare una favola verosimile, né cercare piú in là. Socrate – Molto bene, o Timeo, e bisogna accettarla senz’altro, come tu dici. Già abbiamo accolto il tuo preludio con molto diletto, e ora seguitando fa che noi ascoltiamo il tuo canto.

2      Timeo – Diciamo dunque per qual cagione l’artefice [e] fece la generazione e quest’universo. Egli era buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se alcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della [30 a] generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente. Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è lecito all’ottimo di far altro se non la [b] cosa piú bella. Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna, priva d’intelligenza, sarebbe stata mai piú bella di un’altra, che abbia intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz’anima. Per questo ragionamento componendo l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo, fabbricò l’universo, affinché l’opera da lui compiuta fosse la piú bella secondo natura e la piú buona che si potesse. Cosí dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio. [c] Posto ciò, occorre che passiamo in séguito a dire a somiglianza di qual animale l’abbia fatto l’artefice. Certo non reputeremo che l’abbia fatto a somiglianza d’alcuno di quelli che hanno forma di parte, perché niente assomigliato a cosa imperfetta può mai esser bello: ma lo porremo somigliantissimo a quello, del quale sono parti gli altri animali considerati singolarmente e nei loro generi. Perché quello ha dentro di sé compresi tutti gli animali intelligibili, [d] come questo mondo contiene noi e tutti gli altri animali visibili. E dio volendolo rassomigliare al piú bello e al piú compiutamente perfetto degli animali intelligibili, compose un solo animale visibile, che dentro di sé raccoglie tutti gli animali che gli sono naturalmente affini. Ma abbiamo [31 a] detto noi rettamente che uno è il cielo oppure era piú retto dire che sono molti e infiniti? Uno è il cielo, se è stato fatto secondo il modello. Perché non può essere secondo con un altro quello che comprende tutti gli animali intelligibili: se no, a sua volta vi dovrebbe essere un altro animale, che contenesse quei due, che sarebbero sue parti, e allora non già a quei due, ma a quello che li contiene si direbbe piú rettamente che questo mondo somigliasse. [b] Affinché dunque questo mondo, per esser solo, fosse simile all’animale perfetto, per questo il fattore non fece né due né infiniti mondi, ma v’è questo solo unigenito e generato cielo, e ancora vi sarà. […]