Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 80.
In questo modo il mondo è colpito da una presunzione di idealizzazione, dal sospetto che non mi offre altro che le mie rappresentazioni. L’uomo serio e pratico non vi ha molto peso mentre, invece, il filosofo, l’idealista, è posto, sia rispetto a se stesso sia rispetto a coloro che l’ascoltano, in una posizione di imbarazzo. Come negare che nulla del mondo mi appare se non nelle mie rappresentazioni? È l’irriducibile modo di procedere del vescovo Berkeley, del quale – quanto alla sua posizione soggettiva – ci sarebbe molto da dire riguardo a ciò che, molto probabilmente, vi è sfuggito, quel mi appartengono delle rappresentazioni che evoca la proprietà. Al limite, il processo di questa meditazione, di questa riflessione riflettente, arriva sino a ridurre il soggetto, colto dalla meditazione cartesiana, a un potere di nullificazione.
Il modo della mia presenza al mondo è il soggetto in quanto, a forza di ridursi a questa sola certezza di essere soggetto, diventa nullificazione attiva. Il seguito della meditazione filosofica fa effettivamente oscillare il soggetto verso l’azione storica trasformante e, attorno a questo punto, ordina i modi configurati della coscienza di sé attiva attraverso le sue metamorfosi nella storia. Quanto alla meditazione sull’essere che giunge al suo culmine nel pensiero di Heidegger, essa restituisce all’essere stesso questo potere di nullificazione – o, per lo meno, pone la questione di come egli possa farvi riferimento.
E proprio qui che ci conduce anche Maurice Merleau-Ponty.
Ma, se vi riferite al suo testo, vedrete che è a questo punto che egli sceglie di indietreggiare, per propor ci di tornare alle fonti dell’intuizione concernente il visibile e l’invisibile, di ritornare a ciò che è prima di qualsiasi riflessione, tetica o non tetica, per reperire il sorgere della visione stessa. Si tratta per lui di restaurare – in quanto, ci dice, non può trattarsi che di una ricostruzione o di una restaurazione, non di un cammino percorso in senso inverso – di ricostituire la via attraverso la quale, non dal corpo, ma da qualcosa che egli chiama la carne del mondo, ha potuto sorgere il punto originale della visione. Sembra che in questo modo si veda, in quest’opera incompiuta, delinearsi qualcosa come la ricerca di una sostanza innominata da cui io stesso, il vedente, mi estraggo. Dalle reti o, se volete, dai raggi di un riverbero di cui inizialmente io sono una parte, sorgo come occhio, assumendo, in un certo modo, emergenza da quella che potrei chiamare la funzione della veditura.