È importante, per chi si occupa di psicoanalisi, capire qual sia la differenza tra il transfert che si sviluppa nell’analisi e quello che si sviluppa fuori dall’analisi. Per comprendere la natura del transfert è necessario interrogarsi sulla natura dell’amore. Proviamo a farlo attraverso i tre registri di Lacan. L’amore a livello immaginario comporta il trovare nell’altro un riflesso speculare di sé. La psicoanalisi ha sempre mantenuto un’attitudine critica verso questa lettura del transfert. L’analista deve evitare il più possibile questa posizione speculare che è sempre una posizione di suggestione. Freud si interroga su come trovare un punto di ancoraggio per la psicoanalisi che non fosse suggestivo.
Quando una terapia si fonda sull’identificazione speculare con il terapeuta non è psicoanalisi. Il fondamento della pratica psicoanalitica non deve essere speculare. Capire la natura dell’amore è capire la natura del transfert. Appena lo specchio si incrina il rapporto si distrugge. È ciò che accade quando la relazione terapeutica si fonda sull’immaginario.
A differenza, l’amore della dimensione simbolica è l’amore che prende la forma del dono: si dona la propria mancanza. Si mette in campo qualcosa che non si può rappresentare sul piano speculare. Questo livello dell’amore comporta qualcosa della dimensione simbolica del transfert. Trova un’altra presa. Ha a che fare con una mancanza.
Per finire abbiamo il livello reale dell’amore: qualcosa dell’irrappresentabile, l’incontro con l’imprevisto e il fuggente. Qui abbiamo un incontro con qualcosa di imprevedibile che quando incontriamo produce qualcosa dello spostamento. Non si può più tornare indietro. È un punto di non ritorno.
La specificità della clinica psicoanalitica si fonda proprio sulla funzione assunta dal transfert. In altri orientamenti terapeutici il transfert può essere addirittura un ostacolo. In buona parte dei casi la medicina se ne interessa e Lacan sottolinea che la dimensione transferale non è affatto assente. Ma lo psicoanalista non deve cadere nella trappola di volere il bene del paziente: l’obiettivo è quello di avvicinare il paziente a quello che desidera, diminuendo il più possibile gli influssi del suo fantasma. Se non c’è il transfert non c’è nulla: non accade niente. Non è sufficiente che il paziente venga per avere il transfert. Non è sufficiente che ci sia un investimento affettivo per avere il transfert. Possiamo dire che a questo livello abbiamo un transfert immaginario. Lo si vede quando per esempio il paziente inizia a vestirsi meglio, ad assumere atteggiamenti diversi, forse perché ha proiettato qualcosa di sé e quindi a questo livello abbiamo un transfert speculare. Non è ancora un transfert analitico. La domanda è tutta rivolta sull’analista.
È difficile far emergere la dimensione simbolica dell’incontro con il paziente. Possiamo dire che il transfert inizia a prendere un giro analitico quando iniziano ad arrivare nella seduta elementi che portano qualcosa del rapporto con l’inconscio. Che cosa accade quando entra in gioco questa dimensione? Il transfert nel suo funzionamento viene da un’altra parte, ha un’altra presa. La natura del transfert diventa qualcosa che accade al soggetto e il soggetto si interroga: che cosa mi succede? Nel seminario VIII Lacan lo chiama il significante del transfert. È quel punto di sofferenza del soggetto che diventa un enigma. È qualcosa di molto preciso e localizzabile. Questo enigma diventa una questione di vita o di morte, devo andare da un’analista, devo rispondere, dice il soggetto. Porto tale questione all’analista, il soggetto supposto sapere. Noi supponiamo che l’analista ne sappia qualcosa di più. L’analista ne sa qualcosa del desiderio per la formazione che ha fatto, per l’analisi, ma non sa assolutamente nulla del desiderio di colui che va da lui. Ad un certo livello, si potrebbe dire che il soggetto supposto sapere è l’analizzante stesso. Dalla parola dell’analizzante può uscire “qualcosa” che è in grado di dire fare luce sul suo modo di nominare la questione che lo muove. Il soggetto supposto sapere in realtà è l’analizzante. Meglio ancora, il soggetto supposto sapere è l’inconscio stesso, piuttosto che l’analista o l’analizzante. L’atto analitico è dire sì al lavoro analitico. Freud ha detto all’isterica, “va bene!”, parli, parliamone, piuttosto che chiudergli la bocca. È un atto senza garanzia, senza questa autorizzazione non ci sarebbe analisi. Dire sì al lavoro analitico senza chiudere la porta. È un atto scabroso, scandaloso. Allora, ai tempi di Freud, come oggi, dove tutto sembra collassare quasi esclusivamente sul dato misurabile.