Nomi e nominazione: spunti per una riflessione

Introduzione

La problematica della nominazione, in particolare del nome proprio, è centrale nel pensiero di Lacan. L’indicibile, costituisce il filo con il quale è possibile “cucire” tale tematica con le questioni originatesi dalla cosiddetta svolta linguistica che ha visto la filosofia ormai non poter più far a meno di mettere in discussione se stessa attraverso l’analisi dello strumento con il quale si sostiene, il linguaggio: è possibile immaginare un sapere altro dal linguaggio, un sapere che precede, il linguaggio stesso?

Il pensiero di Lacan non abbandonerà mai la convinzione che è impossibile “dire il vero sul vero”, affermazione questa molto ricorrente nei suoi seminari, come è altrettanto importante l’affermazione “La verità ha una struttura di finzione” (Scilcet6/7 del 1976). L’indicibile è l’introvabile per eccellenza, l’infinito intrattenimento: “Trovare, cercare, tornire, andare attorno: sì sono parole che indicano movimenti, ma sempre movimenti circolari. Come se il senso della ricerca fosse necessariamente  quello di incurvarsi girando. Trovare si inscrive sull’immensa volta celeste che ci ha fornito i primi modelli del motore immobile. Trovare significa cercare attraverso il rapporto col centro che è propriamente l’introvabile”[1].

“Alle cose insensate dare senso è passione” diceva Gianbattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – Napoli, 23 gennaio 1744) nella sua Scienza Nuova, fantascienza di nomi, dinamico allestimento di infinite nominazioni fantastiche che strutturano tutto il suo pensiero intorno alla pratica del fingere.

La Scienza Nuova vichiana è costellata da finzione. Il binomio filosofia-filologia (e verum-factum), che nel De Antiquissima Italorum Sapientia costituisce la piattaforma a partire da cui l’uomo dava il nome alle cose definendo il loro significato, nella Scienza Nuova, lascerà spazio ad un vero che trova la sua realizzazione, non più nell’inevitabile certificazione filologica realizzata su qualcosa di già dato, ma invece nell’atto originario del fingere. La parola si stacca dalla cosa e acquista una sua propria autonomia, una sua propria autosufficienza.

Nel IV Seminario, Lacan porrà subito in evidenzia la distinzione tra intersoggettività immaginaria e intersoggettività simbolica, evidenziando il valore privilegiato della seconda sulla prima, attraverso la quale il soggetto riesce a ricostruire la sua verità, nella parola rivolta all’Altro, compagno questo di ogni operazione di verità. In sostanza la verità si alimenta di finzione, dove l’amore stesso è solo finzione, illusione narcisistica che rimanda sempre all’Altro. L’illusione, la finzione, sostanzia il nulla che costituisce la concezione lacaniana dell’io, dell’essere-nel-mondo, l’Esserci heideggeriano, Dasein, in-der-Welt-sein, che è sempre in una relazione all’Altro, sempre e perennemente verso l’Altro,  aspetto questo che va a scardinare l’idea ingenua di un soggetto come assoluta interiorità. “Quell’essere verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza”[2] questa caratterizzazione dell’esserci come costituente dell’esistenza a fronte dell’essere che permane nella sua indicibilità. L’uomo, l’Esserci, l’essere-nel-mondo, non conosce la causa del proprio essere, egli non si crea da sé. Per Vico, Cartesio avrebbe dovuto dire non già, “io penso quindi sono”, ma “io penso dunque esisto”. L’esistenza rappresenta il modo d’essere proprio dell’uomo, l’Esserci è lo star sopra, l’esser sorto, e questo star sopra suppone la  sostanza, ciò che costituisce l’essenza.

Che cos’è per Lacan l’essere? La Cosa, la mancanza assoluta, il vuoto per eccellenza, che viene allucinato in quanto oggetto irrappresentabile, inaccessibile, invisibile, innominabile. Esso esiste poiché ex-siste: “Non vi è altra definizione possibile del reale che: impossibile; quando qualcosa si trova caratterizzato dall’impossibile, là soltanto vi è il reale; quando si sbatte, il reale è l’impossibile da penetrare”[3]. Ciò che ex-siste,  esso è il reale, la Cosa, l’impossibile. “Io sono la dove non penso” si potrebbe dire allo stesso modo, “io ex-sisto la dove non penso”, la dove l’impossibile permane nella sua indicibilità.

La Cosa non è nulla, ma letteralmente non è, brilla per la sua assenza.

Ce n’est pas ça dice Lacan a proposito della irrapresetabilità della Cosa, del “puro questo” che “non è questo”. L’essere è l’Es, innominabile, senza nome. La Legge nomina.

La vita sorge morendo nella inautenticità. È proprio il nome a garantire che il soggetto si strutturi come soggetto dell’inconscio. Il nome è il nome dell’Uber-Ich, dell’oltre-io, dell’impossibile, dell’Altro. Il nome che io porto mi costituisce in quanto soggetto dell’inconscio.

Nomi e nominazione: l’universale fantastico

“Con umiltà Scardanelli”: così si firma Hölderlin in alcune delle sue poesie appartenenti al periodo della follia. Così si ferma in un nome. In questo periodo, circa 1806, Hölderlin è accudito dal falegname Zimmer, che lo ospita nella sua torre fino al giorno in cui si spense 7 giugno 1843.

E’ come se Hölderlin si fosse totalmente sacrificato alla “circolazione dello spirito poetico”, al punto tale – con umiltà, come lui stesso scrive – da non essere più in grado di firmare i sui versi con il suo nome. La perdita d’identità, la “spersonificazione”, l’unificazione, l’abbandono all’aurorale nominazione poetica certamente non devono essere ricercati fuori dalla sua poesia, questo è bene precisarlo fin da adesso, ma quella firma, è come se facesse parte anch’essa della poesia. Come se Hölderlin avesse consegnato se stesso alla poesia, “sacrificando” perfino il suo “nome”. Sacrificio, questo, che sembra aver celebrato ancor di più il suo vero nome, firmandosi in un altro modo, con un altro nome, come se fosse un’altra persona: tutto ciò appare come il disvelamento del vero contenuto che quel nome aveva nella sua “pancia”. Hölderlin ha consegnato il suo vero nome al “nulla”. Nelle liriche che risalgono agli anni successivi al 1830, egli sembra non far altro che “descrivere” Le stagioni. Apparentemente egli sembra raccontare il lento e monotono susseguirsi delle stagioni, ma in realtà, il  poeta tedesco non fa altro che “disvelare nascondendo”: ciò accade nel (non-)luogo (in)visibile della frantumazione, dello sgretolamento del nome “Hölderlin”, nel (non-)luogo (in)visibile dove l’io poetico che nomina, la parola detta e l’oggetto nominato, si separano tra loro. Il “vuoto” si fa parola. L’”assenza” diviene “essenza”. Il “nascosto” s’avvicina rimanendo tuttavia lontano. Forse s’avvicina troppo. Hölderlin è troppo vicino alle cose: “Il suo è un sopportare l’eccessiva vicinanza delle cose dette, un eccesso che sembra non lasciar tracce, offrendo l’illusione di una vampa che tutto brucia e consuma. L’impressionante presenza delle cose è invece, nel riflesso della parola poetica, la traccia, una presenza spesso insostenibile dallo sguardo e con cui la lingua combatte per ricevere in cambio la parola stessa. La luminosità che avvolge ogni manifestazione, anche il mostrarsi della parola, cancella la traccia del dolore, che continua però a incrinare invisibilmente il verso concedendogli in tal modo la stessa vita segreta che anima le stagioni”.[4]

Il suo io si è frantumato in un fiume tempestoso di parole, le parole che adesso costituiscono il “vero contenuto” (stracolmo di significato) del nome “Hölderlin”. Egli rifiuta questo nome, lo sostituisce con quello dell’umile “Scardanelli”. Il nome “Hölderlin” non darà nessuna “informazione” su niente, non avrà più “senso”, spezzettandosi nelle infinite parole di una poesia, il suo significato verrà assorbito dalla originaria purezza della nominazione poetica; ecco due splendidi esempi:

La primavera
Risplende il sole, fioriti sono i campi,
I giorni vengono, prodighi e miti,
Anche sera fiorisce, e chiari giorni dal cielo
Discendono, lì, ove nascono i giorni.
Splendido, nel rincorrersi di feste,
Si mostra l’anno con le sue stagioni,
E il far dell’uomo principia a nuovi fini:
Tali sono del mondo i segni, molti i prodigi.
24 aprile 1839
Con umiltà Scardanelli
L’estate
In vista è ancora la stagione, mentre splendenti
E lievi ristanno i campi dell’estate;
Disteso nello sfarzo è il verde campo,
Ovunque scivola via l’onda del ruscello
Così tra monte e valle s’allunga il giorno,
Incontenibile, radioso, e in pace
Sfilano le nuvole a grandi altezze:
Sembra esitare, con splendore, l’anno.
9 marzo 1940
Con umiltà Scardanelli

“Così Giove, Cibele o Berecinzia, Nettuno, per cagion d’esempi, intesero e, d’apprima mutoli additando, spiegarono essere esse sostanze del cielo, della terra, del mare che’essi immaginavano animate divinità e perciò con verità di sensi gli credevano Dèi: con le quali tre divinità […] spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla terra, al mare […]”[6]. Così, Giambattista Vico scriveva nel 1744. I primi popoli furono poeti. Poeti che parlarono per caratteri poetici “la qual discoverta [è] la chiave maestra di questa Scienza”[7]. Tali caratteri furono generi fantastici, immagini di cose animate, di eroi, dèi, nati dalla loro naturale fantasia “ai quali” – continua Vico nello stesso paragrafo –  “riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti”.[8]

Qualche pagina addietro ancora scriveva: “[…] questa scienza nei suoi principi contempla primariamente Ercole (poiché si trova ogni nazione gentile antica narrarne uno, che fu che la fondò)”[9]. Ogni nazione narra di un Ercole che la fondò. Ercole uccise nella sua maggior fatica il “leone nemeo” ed incendiò la selva e dalle ceneri costruì l’umanità. Ercole: un nome. La Scienza nuova di Vico indagherà primariamente Ercole. I tempi iniziarono così con un nome, che rappresenta la sorgente originaria dell’uomo storico. La selva è distrutta da Ercole : “Si pensi a un tempo caotico e oscuro nel quale passato presente e futuro si confondono. Ebbene, non c’è storicità e non c’è operare dell’uomo nella storia se non si fissa un inizio […]. Il simbolo dell’inizio dei tempi è dunque Ercole”[10] così scriveva Enzo Paci . Ercoleraccoglie in sé, plasticamente, l’inizio della storia umana, un inizio che è sempre nuovo ogni volta che s’invoca Ercole: ogni volta è un inizio diverso, ma ogni volta si ripete l’originario inizio, l’originario battesimo.

Oh! Nomina, figlia della sacra terra,

Finalmente la madre. Croscian le acque alla rupe

E le tempeste nel bosco e al nome suo

Risuona su dall’antico il Divino che è tramontato.[11]

La prima degnità della Scienza Nuova recita così: “L’uomo per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo”[12]. L’uomo è l’animale che immagina, che si diletta a dare forma all’informe. L’uomo spontaneamente immagina, per natura immagina. L’uomo per sua stessa natura, conosce non attraverso i sillogismi ma attraverso il “termine medio” che riesce ad avvicinare le cose lontane , estreme, facendole però rimanere sempre ancora lontane: “Chi adopera – scrive Vico nel De antiquissima Italorum sapientia –  il sillogismo, più che congiungere cose diverse, trae dal seno d’un genere qualcosa di specifico che è compreso nel genere stesso”[13]. La predicazione nel sillogismo non varca il recinto della definizione già data e sembra addirittura rimanere intrappolata nelle sua forza dimostrativa, la quale le si riversa contro: la predicazione nel sillogismo rimane sterile e prigioniera del suo stesso carattere di universalità e necessità.

“Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”[14]. Il sentire senza avvertire non è né vero né falso. Il sentire con animo perturbato e commosso è la fantasia, l’immagine mediatrice. Il riflettere con mente pura è prendere coscienza della funzione dell’immagine, è  comprendere che senza di essa il senso non può unirsi alla ragione. La memoria avvicina il passato, lo presentifica; la fantasia fa sì che il contenuto di ciò che è stato così avvicinato sia incrementato da-di qualcosa in più, qualcosa di misterioso che lo rende ancora più veritiero; infine, l’ingegno riesce a rendere universale ciò che fino a quel momento era stato prima rievocato attraverso la memoria e poi rinvigorito dalla fantasia. “Senza l‘immagine” – scrive ancora Enzo Paci – “che è la grande mediatrice, il pensiero non agisce nel mondo, la verità resta irraggiungibile e inesprimibile, si rifugia nell’assoluta trascendenza, della quale , in fondo, nulla è possibile dire […]. Il senso, nel suo puro sentire senza avvertire e d’altronde mera naturalità e bestialità ed è, anch’esso, inesprimibile e ineffabile”[15]. Quindi, il punto d’incontro, la zona franca, dove ragione e senso si incontrano, dove natura/sentimento e forma si unificano, dove il pensiero diventa sensibile e il senso intelligibile, dove forma e materia si incontrano, ecco, è qui che si trova il segreto che attraversa la Scienza nuova: la nominazione.

“L’ordine delle idee dee procedere secondo l’ordine delle cose”[16] […] i vocaboli sono trasportati da’ corpi e dalle proprietà de’ i corpi a significare le cose nella mente e dell’animo”[17]. Ecco che – “Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliolo di Giove”[18].  La possibilità di astrarre dalla realtà e costruire concettualmente le idee identiche a se stesse e la possibilità di lavorare sulle somiglianze senza quindi ‘prendere a calci’ le differenze, non si risolvono in una sterile e infruttuosa formulazione di un genere, ma lasciano coesistere la differenza e l’identità; coesistenza questa che avvantaggia, incrementa beneficamente la conoscenza che diviene essa stessa poetica: “sapienza poetica”. L’induzione del simile, così Vico chiama questa capacità propriamente dell’uomo, si differenzia dalla concezione del linguaggio prettamente realista, che vede il segno come un  semplice raffigurante di un raffigurato, dove la concezione nomenclaturista e quindi convenzionalista dei segni conduce a considerare il linguaggio come mera espressione di qualcosa di già dato, già precostituito nella natura umana: il pensiero sarebbe il prima e il linguaggio il dopo. Questa concezione questa degrada il linguaggio a mero strumento, schiavo,  del pensiero stesso. Ma già Platone nel  Crtatilo  cercò di mostrare le contraddizioni di questa ingenua teoria, confutando, appunto, la concezione convenzionalista di Ermogene e ribadendo come il linguaggio sia piuttosto un organo con il quale far luce sull’essenza, e non uno strumento  con l’unica funzione di garantire la comunicazione “di o su” qualcosa. Inoltre, l’induzione del simile, si allontana anche dalla  concezione radicalmente formale del linguaggio che si può riscontrare soprattutto nella estremizzazione della tesi saussuriana, secondo cui “la lingua è forma e non sostanza”[19], estremizzazione questa  formulata da Hijelmslev, il quale arriva a concepire la lingua come forma pura, come mero schema, quasi  come un’entità matematica, dove la  sostanza (la parole) è intesa semplicemente come una variabile della langue. L’induzione del simile, invece,  impedisce proprio che il linguaggio cada in uno di questi due poli estremi, impedisce da un lato che il nome diventi un’”etichetta adesiva” da apporre sull’oggetto (realismo ingenuo) e, dall’altro impedisce che il nome diventi un entità di un altro mondo, tutto interlinguistico, dove diventa impossibile lo sforamento nella dimensione del reale (formalismo estremo). La concezione del linguaggio in Vico si situa nel mezzo tra forma e sostanza, conoscenza e pratica, sapere e fare. Il linguaggio farà vedere le cose più chiaramente, proprio nascondendole, allontanandole, le cose saranno più vicine, più limpide. Il “segreto” ineffabile della nominazione poetica toglierà la “benda” dagli occhi dell’uomo.

Solo Humboldt (anche se con qualche differenza che non deve essere tralasciata), dopo Vico, seppe far luce sulla insostituibile forza euristica del processo analogico, chiarendo l’impossibilità di trattare il fenomeno del linguaggio esclusivamente come oggetto: il linguaggio non è un’opera ma un’attività che si manifesta dinamicamente e non può essere trattato (solo) attraverso il paradigma scientifico; il linguaggio scappa via da ogni definizione concettuale. Come Humboldt, Vico diede al linguaggio un nuovo posto, liberandolo dalla metafisica e dall’ontologia che l’avevano (teoreticamente) imprigionato dall’antichità fino al medioevo; svuotandolo anche da tutti i problemi gnoseologici presenti nella filosofia moderna (questo soprattutto nella Scienza nuova):  Vico affrontò le tematiche, sia inerenti all’essere che ai problemi gnoseologici partendo dal linguaggio stesso. Il linguaggio come luogo della sintesi di intelletto e sensi, passività e ricettività, e come poi scrisse Humboldt, come unico vero “organo formativo del pensiero” [20] che  non “comunica” un concetto, qualcosa di già prodotto precedentemente, “ma si limita a svolgere una funzione di stimolo, affinché tale concetto venga formato con forza autonoma (…) gli uomini si comprendono l’un l’altro non perché si rimettono realmente ai segni delle cose, né perché si determinano mutuamente a produrre con esattezza e compiutezza il medesimo concetto, bensì […] perché fanno vibrare lo stesso tasto del loro strumento spirituale, per cui in ciascuno scaturiscono allora concetti corrispondenti, non però identici”.[21]

L’origine del linguaggio e della scrittura è motivata dal fatto che i primi popoli gentili intuitivamente si esprimevano per caratteri poetici, che finirono poi col diventare universali fantastici. “Giove” – scriveva Verene  – “rappresenta la nascita della forza del nome nella coscienza umana. La forza del nome consente alla coscienza di fissare un punto fermo all’interno del flusso sensibile. Genera un luogo dove la coscienza può ritrovare quello che altrimenti era stato solo presente immediato […]. L’evento fisico e il suo significato si unificano nell’autoidentità del nome originario di Giove”.[22] Quindi  – soprattutto nel Vico maturo – non ci sarà la cesura tra linguaggio “proprio” e “improprio”, tra parola “poetica” e parola “impoetica”.

Heidegger, negli scritti su Hölderlin, ricordava che il nome ha come radice “gno” che significa conoscenza, conoscenza che nasce dal nominare celante: “se ciò che va chiamato è troppo vicino, esso deve essere, in quanto nominato dal suo nome, “oscuro”, affinché il chiamato venga scorto (salvaguardandolo) nella sua lontananza. Il nome deve velare. Il nominare, in quanto chiamare che palesa, è al tempo stesso un nascondere”.[23] Il nome deve velare, “volare” via lontano dal suo nominato, e nonostante ciò gli deve restare vicino. L’insuperabilità del circolo in cui il nome rimanda al nominare e il nominare al nome riduce la nominazione al semplice apporre un nome su un nominato, “il nominare ci dice come si chiama qualcosa, come si è soliti chiamarlo. Il nominare rimanda a un nome. E il nome risulta dal nominare. Con questa spiegazione ci muoviamo in un circolo”[24].

L’attività poietica ordina il caos, rimanendo però al “caos” stesso “ossigeno” sufficiente per continuare a vivere; l’attività poietica produce universali fantastici che non si “cristallizzano” o, meglio ancora, non si “fossilizzano” in stabili astrazioni della realtà, fissate in generi e specie che finiscono poi col diventare veri e propri cimiteri della parola. Essa riesce, invece, lavorando sulle somiglianze “a dilettarsi dell’uniforme”[25], creando in modo naturale generi fantastici, creando nomi che raccolgono quel tratto simile che è alla base dell’induzione analogica. Ercole diventa l’esempio della “forza”: “Ercole diviene la personificazione – scrive la Di Cesare sempre nello stesso articolo – di quell’unico tratto simile che è alla base dell’induzione analogica”.[26] Non c’è, quindi, la formulazione di una definizione che si origina dai tratti raccolti per via razionale, ma piuttosto, Ercole diviene un exemplum nel quale sono custodite contemporaneamente identità e differenza. Non c’è l’istituzione di un genere, ma è un “individuo”: Ercole, che viene assunto come esempio universale; esso non finisce col perdere la dinamicità, la fluidità propria del linguaggio come pratica di vita.

Il nome Ercole non si separa dall’immediatezza della sensazione e dell’immagine intuita, sembra riuscire ad immolare, a sacrificare in un nome – come fa Hölderlin con il nome proprio di Scardanelli –  le infinite sfaccettature di un momento. Il nomeErcole palesa velando, dice in-dicando ma senza far vedere troppo, come la “luce oscura del vino” che non stordisce , non ubriaca ma rende ebbri “l’ebbrezza confonde tanto poco “il senno” da apportare invece, essa soltanto, la lucidità”[27] .L’uomo si accorda con l’Essere, e solo questo accordo rende possibili la (vera) nominazione poetica.

“[…] la metafisica s’innalza sopra gli universali, la facoltà poetica deve profondarsi dentro i particolari”[28] . Gli universali ragionati, quindi, insisto, vanno verso il comune e il generico, gli universali fantastici verso il proprio e l’individuale e in essi universali fantastici vive l’universale e l’individuale, ma l’identico e il differente contemporaneamente. I poeti inventano nomi singoli ma esemplari: Giove, Achille, Ulisse, Ercole, Adamo, Eva, Cadmo, e così via: “il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive”.[29]


[1] M. Blanchot, “La parola plurale”, in L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino, 1977, p.67 (vedi anche Il desiderio dell’interpretazione. Lacan e la questione dell’essere, La Città del sole, Napoli, 1998,  pp. 31-41)

[2] M. Heidegger, Eseere e Tempo, Longanesi, Milano, 1976, p. 28.

[3] J. Lacan, “Conférences et entretiens dans les universités nord-américaines, inScilcet 6/7, Paris 1976, pp. 55-56.(vedi anche D. Tarizzo, op. cit.,  p.44)

[4] G. Moretti, Presentazione a F. Hölderlin, Le stagioni,  Bibliotheca, Gaeta, 1993, p. 16.

[5] Ivi, p.29.

[6] Principi de scienza nuova, a cura di F. Nicolini , Napoli, 1953, paragrafo 402. (d’ora in poi abbreviata in S.N., con la sola indicazione del numero del paragrafo, secondo al scansione istituita dallo stesso Nicolini).

[7] S.N., 34.

[8] Ibidem.

[9] S.N., 3.

[10] E. Paci, Ingens Sylva, Milano, Bompiani, 1994,  pp. 138-139.

[11] F. Hölderlin, Poesie, trad. e a cura di G. Vigolo, Torino, Einauidi, 1953,  p. 152.

[12] S.N., 120.

[13] G.B. Vico, Dell’antichissima sapienza Italica, in Opere, Milano-Napoli, ed. Ricciardi 1953, a cura di F. Nicolini, p.301.

[14] S.N., 218.

[15] E. PACI, Ingens Silva, cit.,  p.105.

[16] S.N., 238.

[17] S.N., 237.

[18] S.N., 196.

[19] F. De Saussure, Corso di linguistica generale, cur. e trad di T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza 1968, pp. 147-148.

[20] W. Von Humboldt, La diversità delle lingue, a cura e trad. di D. Di Cesare, Bari,  Laterza, 1991, p. 42.

[21] Ivi,  p. 142.

[22] D. P. Verene, L’originalità filosofica di Vico, in Vico Oggi, a cura di A. Battistini, Roma,  Armando ed., 1979,  p. 98

[23] M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Milano, Adelphi, 1981, p. 227.

[24] S. Kripke, Nome e necessità, Torino, Boringhieri, 1982, p. 226. E’ interessante notare come, nella prima lezione raccolta in Naming and Necessity, Saul Kripke cerca di delimitare il campo d’azione di ogni teoria sulla nominazione, presentandoci una sorta di “teoria antiteorica” sulla circolarità della nominazione: <<Per qualunque teoria che voglia essere valida, la spiegazione non deve essere circolare. Le proprietà che vengono usate nella votazione [del nome] non devono fare ricorso esse stesse alla nozione di riferimento in modo che sia possibile in ultima analisi eliminarla>>Ivi, p. 67. Dire che Gödel (per esempio) << è colui che ha scoperto l’incompletezza dell’aritmetica >> implica inevitabilmente l’irretimento nella circolarità, perché la stessa teoria sull’incompletezza della aritmetica può essere a sua volta determinata come   << la teoria di Gödel >>: il cerchio è chiuso.

[25] S.N., 933.

[26] D. Di Cesare, Dal tropo retorico, cit., p. 88.

[27] M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 143.

[28] S.N., 821.

[29] S.N., 186.