Tratto da F. Nietzsche, Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pagg. 94-95 – F. Nietzsche, Plato amicus sed, II, 19
Vediamo che Platone deve ai pitagorici l’ipotesi di una molteplicità di ónta, cioè di oggetti non sensibili, e anche la teoria secondo la quale le cose empiriche sarebbero imitazioni di quegli ónta veri. Ora, pur vivendo noi solo nel mondo empirico, come perveniamo a sapere qualcosa delle idee? Da dove raggiungiamo l’íson, l’agathón, che a noi non si presentano nella realtà? Da dove determiniamo quella somiglianza delle cose con l’idea? A Platone viene a questo punto in aiuto la teoria dell’immortalità dell’anima. Come dice Filolao, le anime sono imprigionate nei corpi per punizione, il corpo è un carcere, nel quale la divinità le ha rinchiuse per punizione, e dal quale perciò esse non si possono liberare a proprio piacimento. Quando l’anima si è separata dal corpo, conduce un’esistenza incorporea in un mondo superiore. Ma questo naturalmente solo se si è mostrata degna di questa felicità. Altrimenti si ha la trasmigrazione delle anime, che per espiazione passano attraverso diversi corpi. Platone accetta interamente questa teoria. Il conoscente è una sostanza immateriale del tutto diversa dal corpo, denominata anima; il corpo è un’ostacolo alla conoscenza. Perciò è fallace ogni conoscenza mediata dai sensi: la sola vera è quella libera e sgombra da ogni sensibilità (quindi intuizione); perciò il pensare puro, l’operare con concetti astratti. L’anima realizza ciò solo con mezzi propri; di conseguenza il processo si svolge nel migliore dei modi se essa si è separata dal corpo. Una teoria estremamente gravida di conseguenze! Solo Locke spinse di nuovo per una ricerca sull’origine dei concetti e sostenne che non esistono concetti innati. Quindi: 1. c’è conoscenza (Socrate), 2. ma come è possibile? mediante la preesistenza dell’anima, la rammemorazione, epistéme = anámnesis, rapporto con i veri ónta, corpo e senso come nebbia e maya.