Fonte: H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 253-255
Alla negazione della libertà, e perfino della possibilità della libertà, corrisponde la concessione di libertà atte a rafforzare la repressione. È spaventoso il modo in cui si permette alla popolazione di distruggere la pace ovunque vi sia ancora pace e silenzio, di essere laidi e rendere laide le cose, di lordare l’intimità, di offendere la buona creanza. È spaventoso perché rivela lo sforzo legittimo e persino organizzato di conculcare l’Altro nel suo proprio diritto, di prevenire l’autonomia anche in una piccola, riservata sfera dell’esistenza. Nei paesi supersviluppati, una parte sempre piú larga della popolazione diventa un immenso uditorio di prigionieri, catturati non da un regime totalitario ma dalle libertà dei concittadini i cui media di divertimento e di elevazione costringono l’Altro a condividere ciò che essi sentono, vedono e odorano.
Come può una società ch’è incapace di proteggere la sfera privata dell’individuo persino tra i quattro muri di casa sua asserire legittimamente di rispettare l’individuo e di essere una società libera? È ovvio che una società vien definita libera da ben altri fondamentali risultati, oltre che dall’autonomia dei privati. Eppure, l’assenza di quest’ultima vizia anche le maggiori istituzioni della libertà economica e politica, negando la libertà alle sue nascoste radici. La socializzazione di massa comincia nella casa ed arresta lo sviluppo della consapevolezza e della coscienza. Per giungere all’autonomia si richiedono condizioni in cui le dimensioni represse dell’esperienza possano tornare di nuovo alla vita; la loro liberazione richiede la repressione delle soddisfazioni e dei bisogni eteronomi che organizzano la vita in questa società. Quanto piú essi son diventati le soddisfazioni ed i bisogni propri dell’individuo, tanto piú la loro repressione apparirebbe come una privazione davvero fatale. Ma proprio in virtú di tale carattere fatale essa può produrre il requisito soggettivo primario per un mutamento qualitativo, vale a dire la ridefinizione dei bisogni.
Si prenda un esempio (sfortunatamente fantastico): la semplice assenza di ogni pubblicità e di ogni mezzo indottrinante di informazione e di trattenimento precipiterebbe l’individuo in un vuoto traumatico in cui egli avrebbe la possibilità di farsi delle domande e di pensare, di conoscere se stesso (o piuttosto la negazione di se stesso) e la sua società. Privato dei suoi falsi padri, dei capi, degli amici, e dei rappresentanti, egli dovrebbe imparare di bel nuovo il suo ABC. Ma le parole e le frasi che egli formerebbe potrebbero venir fuori in modo affatto diverso, e cosí dicasi delle sue aspirazioni e paure.
È certo che una situazione simile sarebbe un incubo insopportabile. Mentre la gente può sopportare la produzione continua di armi nucleari, di pioggia radioattiva, e di alimenti discutibili, essa non può (proprio per questa ragione!) tollerare di essere privata del trattenimento e dell’educazione che la rende capace di riprodurre i meccanismi predisposti per la sua difesa o per la sua distruzione. L’arresto della televisione e degli altri media che l’affiancano potrebbe quindi contribuire a provocare ciò che le contraddizioni inerenti del capitalismo non provocarono – la disintegrazione del sistema. La creazione di bisogni repressivi è diventata da lungo tempo parte del lavoro socialmente necessario – necessario nel senso che senza di esso il modo stabilito di produzione non potrebbe reggersi. Qui non sono in gioco né problemi di psicologia né problemi di estetica, ma piuttosto la base materiale del dominio.