Fonte: J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Bari, Laterza, 1951, vol. II, pagg. 538-540
La seconda obiezione vien da coloro che sostengono di possedere un’idea positiva dell’infinito, che non può ottenersi dai nostri sensi: onde noi avremmo idee non derivate affatto dai nostri sensi.
Per rispondere a questa obiezione è necessario considerare a che cosa propriamente e immediatamente appartengono le nozioni di finito e d’infinito. Si converrà, credo, da tutti che ciò sia unicamente la quantità: poiché, comunque noi consideriamo – finiti o infiniti – lo spazio, la durata, il potere, ecc., noi li riferiamo sempre alla nozione di estensione o di gradi, sí ch’essi rientrano nel concetto di estensione o di numero: e perciò finito o infinito hanno a che fare, nel significato proprio della parola, solo con la quantità, continua o discreta che sia, come si dice del numero e dell’estensione. Questo concedono e suppongono, nel loro modo di argomentare, anche coloro che sostengono l’idea positiva dell’infinito. Infatti, se non m’inganno, essi cosí dimostrano la loro idea positiva dell’infinito: finito è ciò che ha un fine; la fine è negazione di ulteriore prolungamento o estensione; l’infinito è la negazione di quella negazione: ergo, l’idea dell’infinito è positiva. Io mi limito ora a notare che in questo modo essi stessi giudicano che l’infinito non ha niente che fare se non con l’estensione, sia che sotto di essa comprendano la durata o il potere o qualunque altra cosa, che sia sub ratione quanti [“calcolabile in termini quantitativi”].
In secondo luogo, pertanto, bisogna considerare se la fine di una cosa sia alcunché di positivo o di negativo, a cominciare dal corpo, che è la cosa piú propriamente capace di estensione. Qui, la nozione che io ho della fine, supponiamo, di un globo (che abbia il diametro di un piede o sia grande quanto il mondo, è lo stesso), è l’extremitas ipsius corporis[“l’estremità del corpo stesso”], ossia, mi pare, la superficie del globo: poiché, se voi oltrepassate la superficie, non siete piú alla fine del corpo, ma di là da esso. E se la superficie di un corpo non sia qualcosa di positivo piuttosto che una mera negazione, io lascio giudicare ai matematici e agli altri.
Ciò che, a parer mio, può aver dato occasione d’inganno a costoro, è l’accezione volgare della parola “fine” quand’è applicata alla durata, dove essa è comunemente intesa come cessazione di esistenza: sebbene, a rigore, la fine della durata sia piú propriamente l’ultimo momento dell’esistenza, e non qualcosa dopo di esso, sí che non è la negazione dell’esistenza. Ma se costoro vorranno considerare la fine (finis) come la negazione dell’esistenza, essi non potranno certamente negare che il cominciare è la prima presentazione dell’essere o dell’esistenza, che nessuno ritiene già una mera negazione, ma anzi qualcosa di positivo: sí che, secondo il loro stesso modo di ragionare, la rimozione di questa positività non è che una mera negazione, onde la loro idea di un’eternità a parte ante [“che precede l’inizio”], ossia di un essere senza principio, è soltanto un’idea negativa. Quanto all’eternità a parte post [“che segue la fine”], nessuno dice che essa sia infinita actu [“in atto”], ma solo potentia [“in potenza”]: quando, per esempio, noi applichiamo l’idea di infinito all’anima nostra, non pensiamo ch’essa sia attualmente infinita, ma che non debba aver mai fine, ossia che debba sempre continuare ad esistere od avere un’addizione di durata, ma non mai che abbia un’infinità: sí che la sua è semplicemente l’infinità dei numeri, che non è mai attuale, ma è sempre suscettibile di addizione. E quando, poi, parliamo di un potere, di un conoscere, ecc., infinito, noi intendiamo unicamente – come avrò forse occasione di mostrare piú avanti – un potere o un conoscere che non può essere limitato o resistito da nessuna cosa che esista o possa esistere: onde questa non è una nozione di una positiva infinità attuale, ma solo di un’infinità potenziale, come quella dei numeri, i cui limiti non possiamo attingere neppure col pensiero. L’infinito, dunque, è per noi ciò ad cuius finem pervenire non possumus [“di cui non possiamo giungere alla fine”].