Apparentemente sembra impossibile poter vivere senza “estensività” o “sentimento di volume”. Lo spazio funge da simbolo della fissità e della divisibilità all’infinito. Bergson insiste molto nel ricordarci che l’estensione concreta, cioè la diversità delle qualità sensibili, il sentire in quanto reale hic et nunc non è nello spazio.
È esattamente l’opposto, noi mettiamo lo spazio nelle nostre sensazioni, cioè le spazializziamo attraverso un’operazione di virtualizzazione mentale.
La nostra immaginazione sembra abituata a cercare il punto d’appoggio. Cerca un mondo di immagini tutte costruite, immobili, la cui apparente fissità riflette soprattutto l’invariabilità dei nostri bisogni. Lo stato di quiete risulta essere così sempre anteriore alla mobilità.
Lo stato di quiete diventa punto di riferimento nel quale poterci collocare, mentre il movimento diventa solo una variazione di distanza, proprio perché lo spazio precede il movimento.
In uno spazio omogeneo e indefinitamente divisibile è possibile distinguere una traiettoria e fissare delle posizioni, e quindi il movimento sarà contrapposto alla traiettoria, che per questo diviene divisibile come una linea e sprovvisto di qualità. Ma come accade ciò? Il filosofo francese ha individuato un meccanismo alla base di questa operazione: ci “ostiniamo” a giustapporre nello spazio fenomeni che non occupano nessuno spazio. Traduciamo illegittimamente ciò che è inesteso in esteso, ciò che è dell’ordine della qualità in quantità. Il processo alla base di questa spazializzazione del divenire è la giustapposizione. Ma qual è la logica della giustapposizione?