L’inconscio è la memoria di rappresentazioni latenti? (11/15)

La memora esplicita o dichiarativa, verbale, consapevole, fondamentale per la nostra identità e per la nostra autobiografia, si differenzia da quella implicita, non verbale, inconsapevole e non rievocabile.[i] La memoria implicita sarebbe una memoria emotiva, procedurale, che consente di immagazzinare le prime esperienza di vita, i primi contatti con l’altro materno.[ii]

Alcuni autori sostengono l’esistenza di un inconscio precoce, formatosi proprio a partire da queste esperienze iniziali, primarie, quando appunto la memoria esplicita, necessaria per la rimozione non è ancora matura (perché non è maturo ancora l’ippocampo), in particolare nei primi due anni di vita.[iii] Paliamo di esperienza preverbali, presimboliche, depositate nella memoria implicita, che non sono ricordabili. Secondo Mancia, questo è l’inconscio precoce non rimosso che condiziona inesorabilmente la vita emozionale, affettiva, di ciascuno di noi.[iv]

Ovviamente la memoria esplicita non ha una struttura fissa, come potrebbe averlo un archivio, essa è dinamica, subisce l’effetto del mondo interno ed esterno e viene continuamente ri-categorizzata.

Anche la memoria implicita, riattivata dal transfert terapeutico, subisce l’influsso della memoria esplicita ed è quindi anch’essa soggetta a delle ri-categorizzazioni.

In L’Io e l’Es Freud scrive: «La distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fondamentale della psicoanalisi […]. La psicoanalisi non può far coesistere l’essenza dello psichico nella coscienza ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualità della psiche»[v], poi aggiunge, «[…] tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l’inc. possiamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente […] la coscienza costituisce la superficie dell’apparato psichico […]. Sono C [coscienti] tutte le percezioni: quelle che ci giungono dall’esterno (le percezioni sensoriali) e quelle che provengono dall’interno e che chiamiamo sensazioni e sentimenti»[vi].

In Nota sull’inconscio in psicoanalisi per Freud la coscienza corrisponde al sistema percezione-coscienza (P-C). Noi siamo coscienti delle rappresentazioni percepite: «Chiameremo allora conscia solo la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e di cui abbiamo percezione, attribuendo questo solo significato al termine ‘conscio’; invece le rappresentazioni latenti, se abbiamo motivo di supporre che continuino a esistere nella vita psichica – com’era nel caso della memoria -dovranno essere designate come ‘inconsce’»[vii].

Quindi, l’inconscio è la memoria di rappresentazioni latenti?

In L’Io e l’Es Freud ipotizza che l’Io sia il rappresentante della coscienza, anche se una parte di esso appartiene all’inconscio. Attraverso le parole, attraverso la rappresentazione di parole, le rappresentazioni delle cose inconsce, possono arrivare alla coscienza e nonostante ciò, l’Io è alla mercé dell’Es.[viii] Fin dai primi giorni di vita, un individuo si crea delle prime rappresentazioni, sorte a partire dalle esperienze sensoriali precoci. Gli affetti e le fantasie che accompagnano questo denso percorso di irretimento rappresentazionale, intrecci di rappresentazioni su rappresentazioni, fin dalle prime fasi dell’infanzia, costituiscono un primo nucleo inconscio che, secondo Mancia, è un inconscio precoce non rimosso, perché il bambino nelle fasi iniziali non è in grado di rimuovere le esperienze traumatiche e dolorose, anche perché la memoria esplicita, necessaria per la rimozione, non è formata. È costretto pertanto ad usare processi primitivi per difendersi: la negazione, la scissione, l’identificazione proiettive di quelle parti traumatiche cariche di angoscia. L’azione dell’Altro può aiutarlo a rendere più sopportabili questi oggetti staccati, parziali, sostenendo un processo che chiameremmo con Klein di introiezione.


[i] Schacter DL (1996) Searching for memory. The brain, the mind, and the past. Basic Books, New York. Warrington EK, Weiskrantz L (1974) The effect of prior learning on subsequent retention in amnesic patients.Neuropsychologia 12:419-428. Mancia M (2000) Sulle molte dimensioni della memoria: neuroscienze e psicoanalisi a confronto. Psiche 2: 181-192. Semenza C (2001) Types of memory in psychoanalysis. Congress on “Neuroscientific and Psychoanalytic Perspectives on Memory”, New York, 20-22 April 2001.

[ii] Secondo Schacter l’emozione sarebbe il prodotto di tre tempi distinti: attivazione fisiologica dell’organismo (arousal) e percezione dello stato di attivazione fisiologica e spiegazione causale riferita all’evento emotigeno. L’attribuzione causale funge da trait d’union, attribuendo ad un particolare fatto una certa attivazione fisiologica. In aggiunta abbiamo la valutazione cognitiva della situazione con il conseguente etichettamento dell’esperienza emotiva. Stanley Schachter, nel 1964 formulò una teoria che per un ventennio ha dominato il panorama degli studi sull’emozione. Egli sosteneva sia l’importanza della valutazione cognitiva sia quella delle sensazioni fisiologiche. Proprio per questo il modello di Schachter è denominato teoria dei due fattori. L’idea di fondo è questa: proviamo un’emozione quando scegliamo un’etichetta cognitiva per indicare uno stato diffuso di attivazione fisiologica che chiamiamo con il nome di una particolare sensazione. Quindi, le sensazioni fisiologiche non sono emozioni e ciascuna emozione non è accompagnata da modificazioni fisiologiche differenziate. Schachter avanza l’ipotesi secondo cui lo stato di attivazione è soltanto un’attivazione generalizzata del sistema nervoso autonomo, fino al momento in cui non lo associamo cognitivamente a un’interpretazione connessa ad un’emozione. Facciamo un esempio, al giudizio: “Il battito del cuore sta aumentando repentinamente perché tra poco dovrò prendere la parola dinnanzi ad un pubblico numeroso” farà seguito una sensazione di paura. Non si provano emozioni se gli stimoli esterni non sono associati cognitivamente allo stato di attivazione. È possibile che io noti di avere il battito del cuore accelerato e che il pubblico numeroso sembri nervoso e pronto a giudicare ogni mia parola, ma questi due eventi non correlati tra loro non producono nessuna emozione. Una metafora adatta a spiegare cosa Schachter intende per sensazioni potrebbe essere quella del jukebox. Senza monete la macchina non si metterà mai in moto, nessun disco sarà suonato. Una volta avviato il jukebox però potremo scegliere quale canzone ascoltare. La messa in funzione della macchina con le monete rappresenta un processo simile all’attivazione fisiologica, attivazione questa che determina l’intensità di una esperienza emotiva. L’operazione di selezione del disco è analogo al processo di valutazione cognitiva ed è questo processo a produrre la qualità dell’esperienza emotiva. La teoria dei due fattori (o del jukebox, potremmo dire) ci dice che, per far sì che si abbia una sensazione, è necessario che ci sia un’attivazione ma anche un’etichetta (o spiegazione) adeguata della condizione interiore. Gregorio Maranon, quarant’anni prima aveva verificato che un’iniezione di adrenalina non è in grado di produrre reazioni autentiche, nonostante riesca a produrre uno stato di attivazione fisiologica. Però, prima di fare l’iniezione, in alcuni casi, Maranon parlava di argomenti spiacevoli come la perdita dei genitori o di bambini malati. In condizioni di non attivazione fisiologica i soggetti sostenevano con calma tali argomenti, quando invece gli stessi argomenti venivano proposti dopo l’iniezione, i soggetti riferivano di sensazioni molto più intense. L’ipotesi di Maranon è che i pensieri che si mostravano innocui in condizione di tranquillità provocavano emozioni durante l’attivazione fisiologica indotta dall’adrenalina. Schachter e Jerome Singer (1962) passarono al vaglio sperimentale la teoria dei due fattori. I due studiosi sostennero che i soggetti dell’esperimento di Maranon spiegavano le loro sensazioni a partire dagli effetti prodotti dal farmaco: tendevano a non considerare il loro stato di attivazione come segnale di un’emozione. I soggetti che non avevano ricevuto un’adeguata spiegazione del loro stato di attivazione avrebbero cercato la causa in una situazione contingente, avrebbero cioè pensato di sentire effettivamente delle emozioni. I due studiosi in una loro ricerca dissero ai partecipanti che erano stati convocati per un esperimento che doveva valutare gli effetti prodotti sul sistema visivo da un prodotto vitaminico denominato Suproxin. Al gruppo di controllo fu somministrato un placebo. Gli altri partecipanti all’esperimento furono suddivisi in tre gruppi: quelli informati, quelli non informati e quelli informati inadeguatamente, a tutti fu iniettato una piccola quantità di adrenalina. Al gruppo informato fu detto che doveva aspettarsi determinati effetti dal Suproxin: alterazione del battito cardiaco, tremiti (effetti prodotti normalmente dall’adrenalina). Al gruppo non informato fu detto che il Suproxin era un farmaco molto leggero che non produceva effetto alcuno. Al gruppo informato inadeguatamente fu detto di aspettarsi degli effetti improbabili: torpore ai piedi, formicolio e un leggero mal di testa. Schachter e Singer prevedevano che i soggetti del gruppo non informato e quelli del gruppo informato inadeguatamente, ovvero i soggetti che non avevano ricevuto spiegazioni sufficienti per comprendere lo stato di attivazione in cui di lì a poco si sarebbero trovati, avrebbero cercato nell’ambiente circostante gli indizi per capire il perché si sentivano così attivati. Alcuni indizi furono forniti dai ricercatori, grazie ad un complice che si spacciò per studente in attesa di fare il test della vista. Egli assunse atteggiamenti tali da suscitare euforia o rabbia. L’euforia veniva trasmessa con fragorose risate o scherzi, giochi con hula hoop ai quali invitava anche gli altri soggetti. La rabbia invece entrava in gioco mentre il complice e i soggetti si trovavano seduti l’uno accanto all’altro per la compilazione di un questionario che comprendeva argomenti molto irritanti. Le domande erano di questo tipo: Quanti rapporti sessuali hai in una settimana? Al di fuori del matrimonio, tua madre, con quanti uomini ha avuto una relazione? Chi nella tua famiglia non si fa il bagno o non si lava con regolarità? Chi sembra aver bisogno di cure psichiatriche tra i tuoi familiari? E così via. Mentre riempivano il questionario, il complice mostrava comportamenti che lasciavano inconfutabilmente emergere una fortissima irritazione, fino al punto estremo di strappare il questionario per uscire rapidamente fuori dalla stanza. Le previsioni dei ricercatori trovarono conferma nell’esperimento. I soggetti che non avevano ricevuto informazioni o le avevano ricevute inadeguatamente tendevano a imitare o farsi coinvolgere dall’umore del complice: mostravano atteggiamenti collerici o una certa euforia. Il gruppo di soggetti adeguatamente informato, che era in grado di dare una spiegazione allo stato di attivazione fisiologica, si lasciava molto meno influenzare dal comportamento del complice. Nell’esperimento con il Suproxin, il gruppo di controllo, ovvero i soggetti che hanno avuto un placebo, non hanno avuto nessuna attivazione del sistema nervoso simpatico e nonostante ciò si mostrarono più arrabbiati rispetto ai soggetti informati. Il punto era, se non si trovavano in uno stato di attivazione, perché allora il gruppo di controllo agiva in modo collerico? L’ipotesi avanzata da Schachter e Singer è che un placebo non ostacola il realizzarsi di uno stato di attivazione. È possibile cioè che solo per aver partecipato all’esperimento, anche in alcuni dei soggetti sottoposti a placebo, si fosse avuto un incremento dell’attivazione prodotta dal sistema nervoso simpatico. Tra i sottoposti al placebo, quelli attivati fisiologicamente nel corso dell’esperimento, furono i soli ad imitare il complice. Secondo Schachter e Singer, questi soggetti reagivano emotivamente solo se si sentivano obbligati a cercare una spiegazione al loro stato di attivazione. Altro dato rilevante è che i soggetti che agivano in modo irritato, coinvolti dal complice, non descrivevano sensazioni sgradevoli. Addirittura asserivano di sentirsi felici. Tale stranezza evidenzia innanzitutto che l’espressione emotiva e le esperienze emotive soggettive possono non essere sincronizzate insieme. I militari con il midollo spinale lesionato, studiati da Hohmann, dimostrarono con estrema chiarezza questo punto: essi asserivano che a volte investivano emotivamente le loro azioni anche quando in realtà sentivano che le loro sensazioni non coincidevano con le azioni che compivano.  Come quando assumiamo atteggiamenti tristi per dimostrare solidarietà empatica con i problemi di qualcuno o quando ci mostriamo felici nonostante i numerosi problemi che ci assillano. R. Reisenzein (1983) ha condotto molti esperimenti per verificare la veridicità della teoria di Schachter. In particolare studiò se il calo dell’attenzione attenuasse l’intensità emotiva. Arrivò a criticare le conclusioni desunte dalle ricerche sui pazienti con lesioni al midollo spinale: visto che essi risentono di una diminuzione dell’attivazione fisiologica e delle emozioni, si è concluso che tale condizione produce una diminuzione delle emozioni. Reisenzein ritiene possibile che ciò non sia necessariamente dovuto a questioni fisiologiche. È possibile che i pazienti con lesioni affrontino la loro situazione reprimendo le emozioni per meglio affrontare il loro disagio e lo sconforto che ne consegue. L’attenuazione delle emozioni può cioè essere connessa ad una condizione depressiva piuttosto che con la perdita di stimoli fisiologici. Reisenzein ha analizzato anche i dati provenienti da ricerche fatte con i beta-bloccanti. Il propranololo e altri beta-bloccanti impediscono che l’azione prodotta dal sistema nervoso autonomo agisca sul cuore. Se la teoria di Schachter è giusta questi farmaci dovrebbero attenuare l’intensità emotiva, perché sono in grado di ridurre le reazioni cardiache. Invece i beta-bloccanti non preservano le persone sane da esperienze di ansia o di collera se queste emozioni sono indotte sperimentalmente in laboratorio. Tuttavia, in alcuni pazienti che indicano come segnale d’ansia l’accelerazione del battito cardiaco, i beta-bloccanti riportano alla normalità il battito cardiaco, alleviando la condizione di ansia. Tuttavia, questi farmaci non aiutano quei pazienti affetti da ansia patologica, cioè non producono nessun effetto ansiolitico (come fanno per esempio il Librium e il Valium). A partire da queste ricerche Reisenzein concluse che le teorie classiche sull’emozione, quelle di James, Cannon e Schachter, avevano sovrastimato la funzione delle sensazioni fisiologiche nella emergenza le esperienze emotive. Secondo questo studioso, non ci sono prove sufficienti in grado di avallare la tesi che, affinché ci siano emozioni, è necessario uno stato di attivazione fisiologica. Reinsenzein propose una nuova lettura della teoria dei due fattori di Schachter: se l’attivazione fisiologica è prodotta artificialmente (per esempio mediante un’iniezione di adrenalina) e se una persona tende a considerare l’attivazione come indice di uno stato emotivo, allora lo stato di sensazioni si amplificano. Ogni stato emozionale comporta il sentire come esperienza psicofisica, come sensazione-sentimento e un’attività di pensiero di tipo preposizionale che costruisce connessioni. A questo punto il sentire implica una significazione, cioè un evento diventa segnale, segno di qualcos’altro.

[iii] Siegel SJ, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Cortina, Milano, 2001.

[iv] Mancia M. (2003) Dream actors inthe theatre of memory: their role in the psychoanalytic process. Int J Psychoanal 84: 945-952. / Mancia M (2004a) Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del trasfert. Bollati Boringhieri, Torino.

[v] Freud S., L’Io e l’Es, OSF, vol. 9, p. 476.

[vi] Freud S., L’Io e L’es, op. cit., p. 482.

[vii] Freud S., Nota sull’inconscio in psicoanalisi, OSF, vol. 6, pp. 575-576.

[viii] «Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P [percezione] come da un nucleo». Freud S., Io e l’Es, op. cit., pp. 486-487.