1.
La statistica, come sapere dello Stato sullo Stato, nasce con la funzione di controllare, governare la popolazione e, come ci ricorda Miller è stato Quetelet il primo a proporre la teoria dell’uomo medio: la normalità è la media, la deviazione ciò che se ne discosta. La regolarità diventa l’ideale punto di riferimento di ogni politica dei sistemi sociali. È la “dittatura della media“[1]. Una dittatura apparentemente democratica: sono le cifre a sostenerla, le statistiche, non gli uomini. La media è impersonale, invisibile, è il prodotto delle combinazioni dei comportamenti e delle proprietà degli individui: “ci si può ribellare contro la legge […] ma non si può farlo contro la media […] Tuttavia […] decidere di conformarsi alla norma, di fare della norma una legge, è una scelta politica”[2].
Se la norma diventa legge, allora la devianza è il fattore sociale da correggere. L’ideale della salute mentale è quello che tende, attraverso i calcoli, a rendere più sopportabile l’insopportabile del reale dissolvendolo, in un universale diagnostico.
Ciò che è aleatorio, incerto, crea scompiglio nel sistema dei calcoli statistici, infatti, migliori sono i calcoli, minore diventa l’incertezza. L’ideale statistico si sforza di non lasciare margine alla contingenza, persegue l’ideale della normalizzazione finalizzata ad eliminare ciò che non si può misurare, il resto pulsionale che abita nel corpo.
La psicoanalisi invece, si occupa proprio della contingenza dei significanti, dei loro effetti imprevedibili, capaci di aprire al nuovo delle invenzioni che oltrepassano l’idea del soggetto come puro essere sociale. La pratica dell’ascolto psicoanalitico accoglie gli effetti traumatici del linguaggio sul corpo, accoglie il sintomo come un dispositivo di godimento.
L’imperativo della normalità ci obbligherebbe a rispettare l’ideale della “media” come perfezione verso cui tendere, norma morale in base alla quale decidere ciò che è giusto o sbagliato, bello o brutto.
Le regole della classificazione delle malattie mentali cambiano continuamente, aggiungono o tolgono proprietà, ogni deviazione dalla norma deve più o meno avere un senso e il fine della cura sarebbe quello di ricondurre il soggetto a riadattarsi alla nuova norma.
2.
Nel sintomo c’è una parte trattabile ed un’altra che è chiusa in sé stessa, che torna al suo posto, che non si lascia trattare, ma di cui possiamo parlare. La verità, che non si può dire tutta, è ciò che accade in una analisi: parliamo di ciò che non si può parlare e di cui dovremmo tacere, senza riuscire mai a dirne tutto.
Il sintomo psicoanalitico da questo punto di vista non è un deficit o una disfunzione che può essere guarita una volta per tutte. È una risposta possibile all’enigma che si produce nell’incontro con il reale. Infatti, se il sintomo può essere decifrato, interpretato, il sinthomo non si lascia prendere nella significazione, in esso c’è qualcosa della pre-articolazione, del balbettio pre-significante: è la lalangue, dove predomina la dimensione del godimento.
3.
La valutazione diagnostica classica traduce in segni osservabili l’esperienza del soggetto. È rassicurante sapere che un disturbo ha una spiegazione scientifica, pensare che il problema non ha nulla a che fare con noi o è di natura biologica o genetica. Mettendo tutto sulle spalle dell’Altro si mantiene una certa tranquillità sociale. Se manca una diagnosi, allora deve essere inventata. Le classificazioni, le categorizzazioni tranquillizzano anche noi psicoanalisti. Ma che uso si può fare in psicoanalisi della diagnosi?
Con la pubblicazione del caso Schreber Freud introduce una discontinuità nella clinica, una discontinuità radicale. Egli introduce un’idea fino ad allora impensabile. La paranoia è quella patologia senza deficit. Un soggetto che delira può svolgere una funzione sociale: lavorare, votare, procreare…. La psicoanalisi è entrata nel discorso della clinica da quell’elemento residuale della trattatistica psichiatria. Per Freud, il delirio di Schreber è il tentativo di guarigione. Il soggetto supposto sapere di Freud è l’inconscio e non il sapere-potere della psichiatria. Il soggetto tenta di ricostruirsi, tenta di ricucire qualcosa che si è lacerato.
Il deficit strutturale lo troviamo soprattutto nel sistema del linguaggio che non può simbolizzare integralmente il reale del godimento. È la condizione più propria dell’animale uomo: quella di essere continuamente impegnato nel trovare una soluzione per regolare i conti con il godimento. Questa fatica valorizza la particolarità di ogni soluzione soggettiva, ovvero il modo in cui ciascuno riesce annodare il significante e il godimento.
4.
Freud inventa la clinica dell’ascolto, andando al di là della descrizione dei sintomi, cercando di individuare le cause, l’evoluzione, la dinamica, dando spazio alla storia del paziente, alle difese, ai traumi. Dai sintomi osservabili egli si sposta sui processi psichici sottostanti, sulle strutture sottostanti. Lo strutturalismo di Lacan, parte proprio dall’idea che il simbolico, la struttura di linguaggio, rappresenti il nucleo intorno al quale si configura la diagnosi del soggetto.
Se da un lato, la formulazione di una diagnosi ha un effetto omologante, è un tentativo di cancellare le differenze soggettive, quelle singolarità che in una etichetta possono essere generalizzate, dall’altro lato non è possibile prescindere da essa; nelle istituzioni, per esempio, non si può neanche prendere in carico un paziente se non c’è una diagnosi di ingresso.
L’uso che possiamo farne noi è proprio quello di evitare che diventi un tappo che soffoca le differenze soggettive. Lo psicoanalista lacaniano mette in logica una narrazione sotto transfert. Estrae qualcosa di universale, di strutturale ma, allo stesso tempo, ogni paziente ha una sua temporalità soggettiva, quella dell’acquisizione del saperci fare con il proprio sintomo.
La diagnosi classica raccoglie il segnale di qualcosa che non va come dovrebbe andare, un segno. In psicoanalisi invece si tratta di valorizzare il soggetto che si lascia sì rappresentare da un altro significante (l’S1 del sintomo padrone, la diagnosi che mi identifica) ma per articolarsi con un altro significante (l’S2 della rete dei significanti) in modo sempre nuovo, creativo.
L’analisi, tuttavia, ti porta in un
punto dove il significante non è più in relazione con un altro significante. In
questo punto diviene segno (letter),
ma non più in termini diagnostici, ma in termini di reale unico, fuori senso,
in termini di resto, di oggetto scarto (litter).
È il sinthomo che marca il litorale
tra godimento e sapere, impossibile da categorizzare in una diagnosi, perché
questo litorale offre infiniti annodamenti. È l’inclassificabile singolare,
fuori da ogni possibile universalità.
[1] L’uomo senza qualità. L’epidemiologia della salute mentale, in La psicoanalisi, n. 39, 2006, p. 43.
[2] Ivi, p. 44.