Fonte: J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. Cap. IX e X
[148-150] Melanie Klein si meraviglia del fatto che l’opera d’arte corrisponda così bene alla successione dei fantasmi del bambino riguardo al corpo della madre, con l’aggressività primitiva e la controaggressione che egli ne risente. Insomma, è una enunciazione piuttosto lunga e piacevole di quel che, nell’immaginazione del creatore dell’opera, e più particolarmente del musicista, è mirabilmente in accordo con il campo primordiale, centrale dell’elaborazione psichica che ci indicano i fantasmi kleniani, messi in rilievo dall’analisi infantile. E colpisce vederne la convergenza con le forme strutturali messe in luce nell’opera d’arte – non che, beninteso, ciò sia pienamente soddisfacente per noi.
[…] Si tratta di una malata, la cui vita ci viene brevemente tratteggiata, che si chiama Ruth Kjar. Non è mai stata pittrice in vita sua, ma al centro del vissuto delle sue crisi depressive uno spazio vuoto in lei, che non può mai riempire […] un bel giorno , si decide to doub a little, a imbiancare un po’ il muro per riempire quel dannato spazio vuoto che ha assunto per lei un valore cristtalizzante […] per riempire lo spazio vuoto a imitazione del cognato essa cerca di dipingere un quadro che si avvicini il più possibile altre tele […] e vien fuori un opera. La Klein vede la sua teoria confermata […] dalla serie di soggetti dipinti dalla paziente nell’intento di riempire questo spazio voto. C’è prima una negra nuda, poi una donna molti vecchia, con tutti i segni del peso degli anni, della disillusione; il culmine viene infine raggiunto nella rinascita, nel ritorno alla luce dell’immagine della propri madre nei suoi anni più smaglianti. E così, come volevasi dimostrare, ecco qui secondo Melanie Klein, la motivazione sufficiente di tutto il fenomeno.
[152] Io pongo che un oggetto può svolgere una funzione tale da permettergli di non evitare la Cosa come significante ma anzi, la rappresenta in quanto tale oggetto è creato. Secondo un apologo fornitoci dalla catena delle generazioni e di cui nulla ci impedisce di servirci, faremo riferimento a quella che è forse la più primitiva funzione artistica, la funzione del vasaio. Vi ho parlato l’ultima volta della scatola di fiammiferi, avevo le mie buone ragioni, e vedrete che la ritroveremo e che forze ci permetterà di andare più in là nella nostra dialettica sul vaso. Ma il vaso è più semplice. È nato certamente prima della scatola di fiammiferi. È lì da sempre. È forse l’elemento più primordiale dell’industria umana. È sicuramente uno strumento, un utensile che ci permette senza ambiguità di affermare, dove lo si trova, la presenza umana. Questo vaso che è lì da sempre, e di cui si è fatto uso da molto tempo per farci concepire parabolicamente, analogicamente, metaforicamente, i misteri della creazione, può renderci ancora servizio. Voglio soltanto attenermi per oggi alla distinzione elementare, nel vaso, tra il suo uso come utensile e la sua funzione significante. Se esso è veramente significante, e se è il primo significante plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante, nella sua assenza di significante, di nient’altro che di tutto ciò che è significante – in altri termini di nulla di significato in particolare. Heidegger lo mette al centro dell’essenza del cielo e della terra.