Tratto da G. W. Leibniz, Scritti filosofici, UTET, Torino, 1967, vol. I, pagg. 153-154 – G. W. Leibniz, Lettera ad A. Arnauld [30 aprile 1687]
È dunque infinitamente piú ragionevole e piú degno di Dio supporre che egli abbia creato, fin da principio, la macchina del mondo in modo che, senza violare ad ogni momento le due grandi leggi della natura, cioè quelle delle forze e della direzione, e seguendole, anzi, in modo perfetto (eccetto che nel caso dei miracoli), accada esattamente che i muscoli del corpo siano pronti a lavorare essi stessi come occorre, nel momento in cui l’anima ha un pensiero o una volizione conveniente, ch’essa ha avuto, del resto, in conformità degli stati precedenti del corpo, e che cosí l’unione dell’anima con la macchina del corpo e con le sue parti e l’azione dell’uno sull’altro consista solo in questa concomitanza che rivela la saggezza ammirabile del Creatore, molto meglio di ogni altra ipotesi. Non si può negare che questa ipotesi sia per lo meno possibile e che Dio sia un artefice cosí abile per poterla attuare; dopo, sarà facile giudicare che questa ipotesi è la piú probabile, perché è la piú semplice, la piú bella e la piú intelligibile e perché taglia di un colpo tutte le difficoltà; senza dir nulla delle azioni malvagie, per le quali sembra piú ragionevole non fare concorrere Dio, se non per la conservazione delle forze create.
Per servirmi infine di un paragone dirò che, rispetto alla concomitanza che io sostengo, essa è simile a quella che ci sarebbe fra diverse orchestre e cori, che eseguano separatamente le loro parti e siano collocate in modo che non si vedano e neppure si odano e che, nondimeno, possano accordarsi seguendo le loro note, ciascuna le proprie, di modo che chi le ascolta, vi trovi un’armonia meravigliosa e molto piú sorprendente che se vi fosse una connessione fra loro. Potrebbe, anzi, accadere che uno, ponendosi accanto ad uno dei due cori, giudicasse dall’uno quello che l’altro esegue, e prendesse una tale abitudine (specialmente se si suppone che possa ascoltare il proprio, senza vederlo, e vedere l’altro, senza ascoltarlo) che, con l’aiuto dell’immaginazione, egli non pensi piú al coro in cui si trova, ma all’altro, oppure che consideri il proprio come un’eco dell’altro, non attribuendo a quello in cui si trova che taluni intermezzi nei quali non si manifestano talune regole della sinfonia con le quali giudica l’altro; oppure attribuendo al proprio certi movimenti, che fa eseguire dal suo lato, secondo certi motivi che egli crede imitati dagli altri a causa del rapporto con ciò che egli trova nello sviluppo della melodia, non sapendo che coloro che si trovano nell’altro coro svolgono in esso qualcosa di corrispondente, secondo i propri disegni.