Tratto da Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 198-199 – G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Prefazione
La nostra discordia verte su punti di una certa importanza. Si tratta di sapere se l’anima sia in se stessa del tutto vuota, a guisa di una tavoletta su cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), come vogliono Aristotele e l’autore del Saggio [J. Locke], e se tutto ciò che vi è tracciato derivi unicamente dal senso e dall’esperienza, o se, invece, l’anima contenga originariamente i princípi di molte nozioni e dottrine, che gli oggetti esterni non fanno altro che svegliare, come occasioni: come io credo con Platone, e anche con gli Scolastici, e con tutti coloro che danno questo significato al passo di san Paolo (Epistola ai Romani, 2, 15) in cui egli afferma che la legge di Dio è “scritta nei cuori”. […]
Nasce, di qui, un altro problema: e cioè se tutte le verità dipendano dall’esperienza, ossia dall’induzione e dai casi particolari, o se ve ne siano alcune che hanno anche un altro fondamento. Se, infatti, taluni eventi si lasciano prevedere prima di averne fatto un qualsiasi esperimento, è palese che noi vi conferiamo qualcosa da parte nostra. Le sensazioni sebbene necessarie per tutte le nostre conoscenze in atto, non bastano punto a darci tutte le nostre conoscenze in genere: poiché esse non offrono mai altro che casi singoli, vale a dire verità particolari o individuali. Ma tutti gli esempi che confermano una verità generale, per quanto numerosi essi siano, non bastano a stabilire la verità universale di tale proposizione: non ne deriva, infatti, che ciò che è accaduto accadrà sempre allo stesso modo. Per esempio, i Greci e i Romani e tutti gli altri popoli della Terra conosciuta dagli antichi, hanno sempre osservato che, prima del decorso di 24 ore, il giorno si cangia in notte e la notte in giorno. Ma ci s’ingannerebbe se si credesse che la medesima regola si osserva ovunque, dopo che si è esperimentato che nella Nuova Zemplia accade il contrario. E, ancora, si ingannerebbe chi considerasse ciò una verità necessaria ed eterna per lo meno nei nostri climi: si deve infatti considerare che neppure la Terra e il Sole esistono necessariamente, e che vi sarà forse un tempo in cui questo astro splendente non sarà piú, almeno nella sua forma attuale, e, con lui, tutto il suo sistema. Si scorge, di qui, che le verità necessarie, quali si trovano nelle matematiche pure, e particolarmente nell’aritmetica e nella geometria, devono avere princípi la cui prova non dipende punto dagli esempi, né, di conseguenza, dall’attestazione dei sensi, anche se, senza i sensi, non si avrebbe mai l’occasione di pensarci. é questa una cosa che occorre distinguere bene; ed Euclide l’ha cosí ben capita che egli dimostra con la ragione anche ciò che si constata a sufficienza con l’esperienza e con le immagini sensibili. Anche la logica, con la metafisica e la morale – che danno luogo, in un caso, alla filosofia naturale, e nell’altro alla giurisprudenza naturale – sono piene di verità siffatte. Di conseguenza la loro prova non può derivare se non da princípi interni, che si chiamano innati.