Gli oggetti sembrano prendersi qualcosa della nostra vita cosciente. Sono vissuti, proprio come sono vissuto ‘io’, sono invecchiati, proprio come sono invecchiato ‘io’. La mia vita esterna è sociale, ed ha un’utilità maggiore rispetto alla nostra vita interiore. Istintivamente solidifichiamo le nostre impressioni perché così riusciamo ad esprimerle attraverso il linguaggio. La durata, lo scorrere del tempo, si fissa perché viene proiettata nello spazio omogeneo e allo stesso modo impressioni che cambiano continuamente si articolano attorno all’oggetto esterno che ne è la causa. Ci soffermiamo sui contorni precisi e l’immobilità. Nel corso della nostra crescita, poco per volta, le nostre sensazioni si sono distinte le une dalle altre, proprio come accade alle cause esterne che le fecero nascere. La stessa cosa accade per i sentimenti o per le idee connesse con quelle sensazioni. Il nostro modo abituale di intendere la durata si origina da una graduale conquista dello spazio nel campo della coscienza pura. Basta poco per osservare cosa accadrebbe se l’abitudine di percepire un tempo omogeneo ci venisse sottratta per un momento, andando aldilà dello strato più superficiale dei nostri stati psichici. Il sogno ci catapulterebbe in questa condizione di assenza del tempo omogeneo. Non misureremmo più la durata ma la sentiremmo, ovvero da quantità ritornerebbe ad essere qualità, non ci sarebbe più la valutazione matematica del tempo trascorso, ma ci sarebbe uno istinto confuso che potrebbe commettere anche degli errori grossolani.
Abitualmente noi solidifichiamo le nostre sensazioni che sono mobili, fluttuanti, indistinte. Misconosciamo tale mobilità per estrarre da essa un nome e solidificarla, darle volume, quel certo sapore, quel certo profumo, quella certa emozione. Ma in realtà non ci sono né sensazioni, né percezioni differenti. Le sensazioni mi appaiono come cose solo quando le isolo e le nomino. Non abbiamo mai la stessa sensazione. Se mi convinco che essa non cambia è perché dall’oggi al domani la scorgo e la individuo attraverso l’oggetto che la causa o attraverso il termine che la traduce. Sono le abitudini linguistiche a farci credere nell’invariabilità delle nostre sensazioni.
Ciò che facciamo è solidificare, volumizzare questa sensazione, cioè la estraiamo dalla mobilità per darle un nome e spazializzarla: un certo sapere, un certo profumo, una certa luce. Quando nomino, quando isolo, le sensazioni appaiono come cose solo se le nomino, se le isolo.
Le sensazioni sembrano ripetersi, sembrano non cambiare, solo perché le associo all’oggetto che ne è la causa o alla parola che le rappresenta.
Il linguaggio agisce sulla sensazione sostenendo la credenza che essa sia invariabile, immutabile, immobile, sempre la stessa.[i]
Quindi Bergson conclude che la materia è un presente, che ricomincia ogni volta, è il presente dell’essere vivente come sensazione e movimento, ovvero la componente materica della sua esistenza. Le sensazioni implicano quindi un coinvolgimento, ovviamente, del corpo, di una parte del corpo. Il ricordo puro, invece, non entra in gioco nel presente e non è collocabile in nessuna parte del corpo, non ha nessuna finalità vitale per il vivente.
In Materia e memoria quando parla di conoscenza contemplativa sembra riprendere il concetto di intuizione sviluppato nel Saggio sui dati immediati e sembra indicare la possibilità di reintegrare ciò che la percezione ha escluso, ciò che il taglio operato dall’atto percettivo, in quanto selettivo di una porzione della realtà, ha messo tra parentesi proprio a partire dalle esigenze utilitaristiche della vita umana.
I bisogni vitali dell’uomo rendono necessaria una solidificazione della realtà e per avere presa su di essa dobbiamo rappresentarcela come un corpo. La scienza geometrizza e attraverso lo studio della materia, fin nei suoi più piccoli corpuscoli, espande al massimo il processo di “virtualizzazione geometrica” e spazializzante.
Bergson, seguendo questo sentiero approda ad una nuova concezione della
metafisica: la metafisica positiva, ovvero di una ricerca che guarda oltre i
limiti conoscitivi recintati nelle esigenze utilitaristiche e vitali dell’uomo.
In tal senso, la metafisica è per lui la “scena” che pretende di fare a meno
dei simboli. Vissuti in divenire, pura eterogeneità, continuità inarrestabile
che va oltre il linguaggio.
[i] Bergson H., Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaele Cortina Editori, Milano, 2002, p. 85.