Necrologio di Karl Abraham (1926)
323-24
Il 25 dicembre 1925 muore a Berlino, non ancora cinquantenne, il dottor Karl Abraham, capo del gruppo berlinese da lui stesso fondato e presidente dell’Associazione psicoanalitica internazionale. Fra tutti coloro che hanno seguito Freud nelle oscure plaghe della ricerca psicoanalitica, la posizione che Abraham si è conquistato è talmente eminente che un unico nome è degno di stare accanto al suo: quello di Ferenczi. La fiducia illimitata di cui egli godeva da parte dei suoi collaboratori e allievi lo avrebbe presumibilmente destinato ad assumere una funzione di guida e certamente egli sarebbe stato un’esemplare figura di capo, che nulla avrebbe potuto distogliere dalla ricerca del vero: né le lodi e le adulazioni della massa, né i seducenti allettamenti delle proprie costruzioni fantastiche.
A Romain Rolland (1926)
329
Si tratta di poche parole scritte in segno di omaggio per il sessantesimo compleanno di Rolland. Freud lo stimava come artista e apostolo dell’amore fra gli uomini. Quando poi finalmente lo conobbe di persona, fu sorpreso di scoprire che Rolland sapeva stimare altamente il vigore e l’energia e che aveva incorporato profondamente in sé una grande forza di volontà.
Premessa a un articolo di E. Pickworth Farrow (1926)
335
L’autore dell’articolo era noto a Freud come un uomo di grande intelligenza e di spirito indipendente. Probabilmente Farrow non era riuscito a trovare un accordo né con uno né con l’altro dei due analisti con cui aveva cercato un contatto, a causa di una certa sua caparbietà. Si era dedicato quindi alla coerente applicazione del procedimento dell’autoanalisi, di cui Freud stesso si era servito a suo tempo per analizzare i propri sogni. I risultati del lavoro di Farrow meritavano attenzione proprio per le particolari caratteristiche della sua personalità e della sua tecnica.
Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith (1926)
341-43
Il discorso fu letto per conto di Freud il 6 maggio 1926, in una riunione che l’Associazione tenne in onore del suo settantesimo compleanno. Freud racconta come ne era diventato membro. Era accaduto negli anni successivi al 1895, quando due forti impressioni sortirono contemporaneamente su di lui il medesimo effetto. Da un lato aveva cominciato a penetrare nelle profondità della vita pulsionale; dall’altro la comunicazione delle sue spiacevoli scoperte aveva avuto il risultato di fargli perdere la maggior parte delle sue relazioni di allora; in quella solitudine si era destato in lui l’anelito per una cerchia di uomini eletti e di elevato sentire, i quali, nonostante la sua temerarietà, lo accogliessero amichevolmente. Le cose che avevano reso per lui irresistibile l’attrazione verso l’ebraismo erano state non la fede e l’orgoglio nazionale, ma molte oscure potenze del sentimento, difficili a descriversi. Essendo ebreo, si era ritrovato immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell’uso del loro intelletto ed era stato sempre pronto a passare all’opposizione e a rinunciare all’accordo con la “maggioranza compatta”. Per circa due terzi del periodo della sua adesione, Freud aveva partecipato coscienziosamente alla vita dell’Associazione traendo conforto e stimolo dal rapporto con i suoi membri. Essi erano allora così amabili da non rinfacciargli di essere rimasto lontano in quell’ultimo periodo. Il lavoro lo travolgeva, esigenze a esso legate lo premevano. Infine erano venuti gli anni della malattia, che ancora gli impediva di essere tra loro. Li assicurava però che per lui avevano significato molto e avevano fatto molto.
Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale (1926)
Introduzione
351-58
Profano è equivalente a non medico. In Germania e in America ogni ammalato è padrone di lasciarsi curare come e da chi crede, e d’altra parte chiunque può, come “guaritore empirico”, mettersi a curare malati. La legge interviene soltanto quando a essa si fa appello per chiedere conto di danni arrecati al malato. Ma in Austria la legge è preventiva, e interdice senz’altro al non medico di esercitare una cura, senza attenderne l’esito. Molte persone riconoscono di essere ammalate e si rivolgono ai medici per essere liberate dai loro disturbi nervosi. I medici hanno stabilito una classificazione di questi mali ed enunciano le loro diagnosi con vari nomi: nevrastenia, psicastenia, fobie, nevrosi ossessive, isteria. Esaminano gli organi interessati ai sintomi e li trovano sani. Consigliano un’interruzione delle occupazioni e distrazioni abituali, ottenendo in tal modo transitori miglioramenti, oppure nessun miglioramento. Alla fine questi ammalati sentono dire che vi sono degli individui che si occupano in modo specifico del trattamento di disturbi nervosi, e si mettono in analisi presso costoro. Fra paziente e analista non accade nulla, se non il fatto che parlano tra loro. Il paziente è invitato a essere del tutto sincero con il suo analista, a non dissimulare intenzionalmente nulla di quanto gli passa per la mente, e a trascurare tutti quei ritegni che tenderebbero a escludere qualche pensiero o ricordo dalle sue comunicazioni.
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359-66
Noi psicoanalisti ci rappresentiamo l’apparato che serve per l’esecuzione delle operazioni psichiche proprio come uno strumento costituito di più parti (istanze) ciascuna delle quali ha una particolare funzione; esse presentano fra loro una stabile connessione spaziale. Noi riconosciamo un’organizzazione psichica inserita fra gli stimoli sensoriali e la percezione dei suoi bisogni organici da un lato, e i suoi atti motori dall’altro, e costituente una sorta di intermediario fra questi e quelli. Chiamiamo questa organizzazione il suo “Io”. Oltre all’Io riconosciamo un altro territorio psichico più esteso, più vasto e più oscuro, e lo chiamiamo “Es”. Immaginiamo che l’Io sia quello strato dell’apparato psichico, dell’Es dunque, che è stato modificato dall’azione del mondo esterno (della realtà). L’Io e l’Es differiscono fra loro per più versi. Valgono per l’Io altre leggi per il decorso degli atti psichici che non nell’Es; l’Io persegue scopi diversi e con mezzi diversi. Tutto quanto avviene nell’Es è e rimane inconscio; i processi dell’Io possono divenire coscienti: ma non tutti, non sempre e non necessariamente; e grandi parti dell’Io possono restare stabilmente inconsce. L’Io è lo strato esterno, periferico, dell’Es. Noi chiediamo che chiunque voglia esercitare l’analisi si sottoponga egli stesso a un’analisi.
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367-72
Noi psicoanalisti ammettiamo che le forze le quali mettono in azione l’apparato psichico si generano negli organi del corpo quali espressioni dei grandi bisogni organici da noi designati “pulsioni”. Queste pulsioni riempiono l’Es; ogni energia dell’Es deriva da esse. Anche le forze dell’Io provengono da quelle dell’Es. Queste pulsioni esigono il soddisfacimento. Si giunge a stati intollerabili quando le esigenze pulsionali dell’Es non trovano modo di appagarsi. Le pulsioni dell’Es sospingono verso un appagamento immediato, senza dilazioni, ma in tal modo o non ottengono nulla oppure addirittura un danno sensibile. È ora compito dell’Io evitare questo insuccesso, collocandosi come intermediario tra le esigenze dell’Es e le difficoltà opposte dal mondo esterno reale. Non vi è un’ostilità naturale fra Io ed Es. Quando l’Io avverte un’esigenza proveniente dall’Es, a cui vorrebbe resistere ma che è incapace di dominare, tratta il pericolo costituito dalla pulsione come se fosse un pericolo esterno; tenta cioè di prendere la fuga di fronte a esso. Noi diciamo che l’Io rimuove quell’impulso. Tirando le somme: l’Io ha tentato di reprimere in un modo improprio determinati elementi dell’Es, il tentativo è fallito, e l’Es ha preso le proprie vendette, nella nevrosi. La nevrosi costituisce quindi l’esito di un conflitto fra l’Io e l’Es. La terapia si propone di ricostruire l’Io e restituirgli il dominio sull’Es. Il terapeuta deve ricercare le antiche rimozioni e indurre l’Io a correggerle. Ciò comporta che l’analisi si spinga indietro fino all’infanzia, quando l’Io è più debole, attraverso i sintomi, i sogni e le associazioni libere.
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373-84
L’analisi è fondata sopra una piena sincerità. Questo obbligo della sincerità pone all’analista e anche al paziente una grave responsabilità morale. Tra le cause prossime e remote delle malattie nervose, i fattori della vita sessuale hanno una funzione predominante e forse specifica. L’importanza attribuita dagli psicoanalisti al fattore sessuale è divenuta il più forte motivo dell’ostilità verso la psicoanalisi. La vita sessuale non è soltanto un argomento piccante, è anche un serio problema scientifico. L’analisi deve risalire ai primi anni infantili del paziente, giacché proprio in tale epoca, e mentre l’Io è debole, si sono costituite le rimozioni decisive. I moti pulsionali sessuali accompagnano la vita fin dalla nascita, e proprio per difendersi da questi impulsi l’Io infantile esercita le sue rimozioni. La funzione sessuale percorre una complessa evoluzione. Quando più tardi l’esercizio della funzione sessuale incontra ostacoli, l’impulso sessuale, o libido, regredisce facilmente a quelle posizioni dove si era anteriormente prodotta una fissazione. L’inizio in due tempi della vita sessuale è certo in stretta connessione con l’origine delle malattie nervose. Pare che si verifichi solamente nell’uomo, e forse rappresenta una delle condizioni di questo privilegio della specie umana che è la nevrosi. È caratteristico del bambino che entrambe le funzioni escrementizie si carichino di un interesse sessuale. Si sa che il bambino impiega gran tempo prima che in lui si instaurino le reazioni del disgusto. Il bambino regolarmente dirige i propri desideri sessuali sulle persone del suo ambiente più prossimo. Il primo oggetto sessuale è costituito dalla madre per i maschietti, dal padre per le bambine, e l’altro genitore viene vissuto come un rivale ingombrante. Questa struttura psichica è chiamata nel suo insieme complesso edipico. Il risveglio di questo complesso nella pubertà determina talora gravi conseguenze. La prima scelta amorosa del bambino è una scelta incestuosa. Ciò si accorda perfettamente con gli insegnamenti che possiamo trarre dalla storia e dalla mitologia.
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385-95
Da ciò che il paziente racconta l’analista deduce le impressioni, i fatti, i desideri che egli ha rimossi, perché appartengono a un tempo in cui il suo Io era ancora debole e se ne spaventava invece di affrontarli. Quando l’analista gli comunica le proprie deduzioni, torna a collocarsi nelle situazioni del passato e le risolve meglio. Allora le limitazioni a cui il suo Io era stato costretto scompaiono, ed egli è guarito. Il materiale deve essere interpretato al momento giusto, bisogna cioè attendere che il paziente si sia avvicinato al rimosso tanto da dover fare soltanto pochi passi ancora per raggiungerlo. È poi comprovato che i pazienti manifestano il desiderio di guarire, ma d’altro lato non lo vogliono. A produrre questa situazione è il cosiddetto “tornaconto secondario della malattia”, che è la fonte di alcune delle resistenze alla psicoanalisi. Esistono altre tre resistenze: 1) l'”inconscio senso di colpa” e il bisogno di punizione che derivano dal Super-io; 2) la resistenza dell’Es: se un processo pulsionale ha seguito per decenni una determinata strada e deve ora percorrere una nuova via che gli venga aperta, ciò non si compie senza determinate difficoltà; 3) la resistenza proveniente dall’Io: dopo che a suo tempo l’Io ha effettuato per angoscia una rimozione, l’angoscia perdura e si manifesta come resistenza ogni volta che l’Io deve approssimarsi al rimosso. Il nevrotico ha fiducia nell’analista in virtù di un particolare atteggiamento emotivo che assume verso di lui. Questo rapporto affettivo è una forma di innamoramento; si sviluppa in forma nettamente ossessiva e si sostituisce alla nevrosi. Il paziente riproduce, sotto forma di innamoramento per l’analista, accadimenti psichici che ha già vissuto nel passato; ha trasferito sull’analista atteggiamenti già latenti in lui e intimamente connessi con l’origine della sua nevrosi. Questo amore di traslazione, per la sua natura patologica, agisce come resistenza all’analisi, e questa è la quinta resistenza. Il paziente replica anche le sue passate reazioni di difesa. Tutta l’abilità nel gestire la traslazione consiste nel convincere il malato che egli riproduce, in una forma intuibile, attuale, in luogo di ricordare, e che si limita a ripetere una vecchia storia. Esistevano in quel periodo due istituti per l’insegnamento della psicoanalisi, il primo a Berlino, il secondo a Vienna. Un terzo stava per aprirsi a Londra. La preparazione per l’attività psicoanalitica non è facile né semplice, il lavoro è molto e la responsabilità gravosa.Ma colui che si è sottoposto a questo apprendistato, che è stato egli stesso analizzato, che ha imparato la delicata tecnica psicoanalitica (l’arte dell’interpretazione, il modo di trattare le resistenze e di gestire la traslazione), non è più un profano nel campo della psicoanalisi.
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396-404
Le nevrosi sono una specie particolare di malattia e la psicoanalisi un particolare metodo per trattarle: una specialità medica dunque. Tuttavia i medici non hanno alcun diritto storico al monopolio dell’analisi. Nel corso dei suoi studi il medico ha acquisito una preparazione che è pressoché l’opposto di quella di cui avrebbe bisogno per l’analisi, in particolare perché l’insegnamento medico fornisce punti di vista falsi e dannosi nei confronti delle nevrosi. L’attività di un analista impreparato non è meno dannosa per gli ammalati di quanto può esserlo quella di un chirurgo inabile. Nessuno dovrebbe esercitare l’analisi senza averne acquisito il diritto mediante un’adeguata preparazione. A Vienna, su richiesta dell’ordine dei medici, le autorità competenti pareva volessero interdire del tutto ai non medici l’esercizio della psicoanalisi; tale divieto avrebbe allora colpito anche quei membri della Società psicoanalitica che avevano avuto un’eccellente preparazione e che si erano perfezionati mediante una lunga pratica. Premettendo che, per la legge austriaca, ciarlatano (profano) è colui che tratta ammalati senza essere in possesso di un diploma statale che lo abiliti all’esercizio della medicina, Freud propone una definizione diversa: ciarlatano è colui che intraprende un trattamento senza possedere le conoscenze e le capacità necessarie.
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405-15
Il medico, nella pratica psicoanalitica, ha un indubbio vantaggio sul profano riguardo alla questione della diagnosi. L’ammalato può presentare il quadro esteriore di una nevrosi, e avere invece qualcosa di diverso: l’inizio di una malattia mentale incurabile, i prodromi di un processo distruttivo del cervello. Se il fattore determinante per la produzione della nevrosi è dato dalla relativa debolezza dell’Io, una malattia organica, solo indebolendo l’Io, può generare la nevrosi. Un analista, medico o no, che sospetti una malattia organica, deve ricorrere all’aiuto dell’internista. A sostegno di ciò, Freud elenca tre motivi: 1) non è opportuno che una sola persona conduca contemporaneamente un trattamento psichico e uno organico; 2) la situazione della traslazione rende sconsigliabile un esame fisico del paziente da parte dello psicoanalista; 3) lo psicoanalista, poiché il suo interesse è concentrato con così grande intensità sui fattori psichici, ha tutto l’interesse per non fidarsi della propria imparzialità. Quanto all’ammalato, che lo psicoanalista sia medico o no gli è indifferente, purché la prescritta visita medica preliminare e le altre che si rendessero necessarie durante l’analisi in determinati casi incerti, escludano il pericolo di un errore di diagnosi. L’ambito della preparazione psicoanalitica e quello della preparazione medica si intersecano tra loro, ma né il primo comprende in sé il secondo, né il secondo include il primo. Freud è dell’opinione che a un analista non siano necessari studi medici. Afferma di non desiderare affatto che la psicoanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca col trovare posto nei trattati di psichiatria, immaginando che schiere di operatori sociali vengano un giorno preparate con una formazione psicoanalitica per offrire un correttivo contro la pressione che la civiltà esercita sul mondo contemporaneo. Conclude che le possibilità interne di sviluppo della psicoanalisi non devono essere colpite né da imposizioni né da divieti.
Postsritto del 1927
L’accusa di ciarlataneria contro Theodor Reik (analista non medico) è caduta, ma Freud non crede che quel risultato possa essere attribuito al suo libro. È probabile piuttosto che l’individuo che aveva avviato il procedimento, come parte lesa, si sia rivelato poi indegno di fede. Freud afferma che la tesi che egli ha voluto mettere in primo piano sul problema dell’analisi condotta da non medici è la seguente: non importa se l’analista è in possesso o no di un diploma medico; importa invece che egli abbia acquisito la preparazione specifica che gli occorre per esercitare l’analisi. Il piano di studi per l’analista è ancora da creare; dovrà comprendere materie tratte dalle scienze dello spirito, dalla psicologia, dalla storia della civiltà, dalla sociologia, oltre che elementi di anatomia, biologia e storia dell’evoluzione. La psicoanalisi fa parte della psicologia, ma non la psicologia medica, o la psicologia dei processi morbosi, bensì la psicologia tout court. Freud ammonisce i colleghi americani a non escludere dall’analisi i non medici. Potrebbe essere questo un modo di influenzarli, di indurli a cooperare, di prevenire una quantità di eccessi e di abusi. Non potrebbero magari costoro trovare così un qualche interesse a innalzarsi intellettualmente e moralmente?
Il dottor Reik e il problema dei guaritori empirici (1926)
429-30
È una lettera di rettifica inviata da Freud alla “Neue Freie Presse” di Vienna. Freud riconosce di essersi avvalso di Reik per casi particolarmente difficili, purché i sintomi non avessero a che fare con l’ambito somatico. Aggiunge di non avere comunque mai tralasciato di dire al paziente che Reik non era un medico, bensì uno psicologo. A riguardo della figlia Anna, chiamata in causa dal giornale, Freud precisa che si è dedicata alle analisi pedagogiche di bambini e adolescenti e assicura di non averle affidato neppure un caso di malattia nevrotica grave in un adulto. Approfitta dell’occasione per comunicare ai lettori di aver dato alle stampe Il problema dell’analisi condotta da non medici, in cui tenta di mostrare che cos’è la psicoanalisi e quali sono le sue pretese nei riguardi degli analisti. Freud conclude che le leggi contro i guaritori empirici, se applicate meccanicamente al caso degli analisti dotati di una buona preparazione, destano notevoli e serie perplessità.
L’avvenire di un’illusione (1927)
1
435-39
La civiltà umana mostra, a chi voglia osservarla, due differenti aspetti. Essa comprende da un lato tutto il sapere e il potere che gli uomini hanno acquisito al fine di padroneggiare le forze della natura e di strapparle i beni per il soddisfacimento dei propri bisogni, dall’altro tutti gli ordinamenti che sono necessari al fine di regolare le relazioni degli uomini tra loro, e in particolare la distribuzione dei beni ottenibili. Si ha l’impressione che la civiltà sia qualcosa che fu imposto a una maggioranza recalcitrante da una minoranza che aveva capito come impossessarsi del potere e dei mezzi di coercizione. Soltanto l’influenza di individui esemplari, riconosciuti dalle masse come loro capi, può indurle alle fatiche e alle rinunce da cui dipende il permanere della civiltà. Tutto va bene quando questi capi sono persone dotate di un discernimento superiore circa le esigenze della vita, persone che si sono elevate fino al dominio dei propri desideri pulsionali. Sussiste tuttavia il pericolo che, per non perdere il proprio influsso, i capi concedano alla massa più di quanto questa non concede loro, e appare quindi necessario che essi dispongano di strumenti di potere che li rendano indipendenti dalla massa.
2-3
440-50
La civiltà umana mostra, a chi voglia osservarla, due differenti aspetti. Essa comprende da un lato tutto il sapere e il potere che gli uomini hanno acquisito al fine di padroneggiare le forze della natura e di strapparle i beni per il soddisfacimento dei propri bisogni, dall’altro tutti gli ordinamenti che sono necessari al fine di regolare le relazioni degli uomini tra loro, e in particolare la distribuzione dei beni ottenibili. Si ha l’impressione che la civiltà sia qualcosa che fu imposto a una maggioranza recalcitrante da una minoranza che aveva capito come impossessarsi del potere e dei mezzi di coercizione. Soltanto l’influenza di individui esemplari, riconosciuti dalle masse come loro capi, può indurle alle fatiche e alle rinunce da cui dipende il permanere della civiltà. Tutto va bene quando questi capi sono persone dotate di un discernimento superiore circa le esigenze della vita, persone che si sono elevate fino al dominio dei propri desideri pulsionali. Sussiste tuttavia il pericolo che, per non perdere il proprio influsso, i capi concedano alla massa più di quanto questa non concede loro, e appare quindi necessario che essi dispongano di strumenti di potere che li rendano indipendenti dalla massa.
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451-54
Freud ha tentato di dimostrare che le rappresentazioni religiose sono scaturite dallo stesso bisogno che ha generato tutte le altre acquisizioni della civiltà, ossia dal bisogno di difendersi contro lo schiacciante strapotere della natura. A ciò si è aggiunto un secondo motivo: la spinta a correggere le imperfezioni, dolorosamente avvertite, della civiltà. Quando l’individuo, crescendo, si accorge che è destinato a rimanere per sempre un bambino, che non potrà mai fare a meno di tutelarsi contro potenze superiori sconosciute, presta loro i tratti della figura paterna, si crea gli dei, che teme, che cerca di propiziarsi, e ai quali nondimeno si affida per essere protetto. Il motivo del desiderio ardente del padre coincide pertanto con il bisogno di protezione contro le conseguenze della debolezza umana; la difesa contro l’insufficienza infantile si riflette, con i suoi caratteri, nel modo di reagire dell’adulto contro la propria fatale impotenza, cioè nella formazione della religione.
5-6
455-63
Le rappresentazioni religiose sono assiomi e asserzioni riguardanti fatti e rapporti della realtà esterna (o interna) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato da noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede. Poiché ci informano su ciò che più di ogni altra cosa è importante e interessante nella vita, vi attribuiamo un valore particolarmente elevato. Le dottrine religiose fondano la loro pretesa di essere credute in primo luogo sul fatto che già i nostri antenati remoti vi hanno creduto; in secondo luogo, possediamo prove tramandateci proprio da tale remota antichità; in terzo luogo, è proibito porre il problema di tale convalida. Le illusioni derivano dai desideri umani. Le dottrine religiose, nella loro natura psicologica, sono illusioni, e perciò stesso indimostrabili.
7
464-69
La religione ha reso alla civiltà umana grandi servigi, ha contribuito in misura notevole, ma non abbastanza, a tenere a bada le pulsioni asociali. Governando la società umana per millenni, ha avuto tutto il tempo di dimostrare ciò di cui è capace. Se fosse davvero riuscita a rendere felici la maggior parte degli uomini, a consolarli, a riconciliarli con la vita, a farne dei portatori di civiltà, a nessuno verrebbe in mente di aspirare a un mutamento della situazione. Tuttavia un numero spaventosamente grande di uomini è insoddisfatto della società e in essa è infelice. La civiltà ha poco da temere dagli uomini colti e da chi si dedica al lavoro intellettuale. In costoro, per quanto riguarda il comportamento civile, la sostituzione delle motivazioni religiose con motivazioni diverse, laiche, può avvenire senza strepito; questi individui sono inoltre portatori di civiltà. Le cose prendono un’altra piega quando si tratta di persone incolte, di uomini oppressi, che hanno tutti i motivi di essere nemici della civiltà. Dunque, o bisogna tenere rigidamente a freno queste masse pericolose, impedire con attenzione estrema che esse accedano a qualsiasi occasione di risveglio intellettuale, oppure bisogna operare una revisione radicale del nesso civiltà-religione.
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470-74
Se la civiltà ha istituito il dettame che l’uomo non uccida il suo prossimo da lui odiato che gli sbarra il cammino o i cui averi sono da lui agognati, ciò è manifestamente avvenuto nell’interesse della vita associata degli uomini, la quale altrimenti non sarebbe stata possibile. Il padre primigenio ha costituito l’immagine originaria di Dio, il modello in conformità del quale le generazioni successive ne hanno foggiato la figura. Dio ha realmente preso parte all’istituzione di quel divieto: l’ha creato il suo influsso, non il discernimento della necessità sociale. Gli uomini sapevano di essersi sbarazzati con la violenza del padre e, nel reagire all’oltraggio commesso, si proposero di rispettarne da allora in poi il volere. Il patrimonio delle rappresentazioni religiose comprende non solo appagamenti di desideri, ma anche importanti reminiscenze storiche. È stata ripetutamente indicata l’analogia esistente fra la religione e una nevrosi ossessiva. Molte peculiarità e vicissitudini del formarsi della religione diventano in tal modo intelligibili. Il riconoscimento del valore storico di talune dottrine religiose accresce il rispetto per esse, non invalida però la proposta che si cessi di addurle a motivo dei precetti della vita civile. Con l’aiuto di questi residui storici si è giunti a concepire i dogmi religiosi alla stregua di relitti nevrotici; è arrivato probabilmente il momento, come avviene nel trattamento psicoanalitico, di sostituire gli esiti della rimozione con i risultati del lavoro razionale della nostra mente.
9-10
475-85
Un credente ha con il contenuto della religione determinati legami di affezione. È impresa senz’altro assurda voler eliminare la religione violentemente e di colpo. La religione è paragonabile a una nevrosi infantile, e l’umanità supererà tale fase nevrotica al modo stesso in cui, crescendo, molti bambini guariscono della loro analoga nevrosi. Il primato dell’intelletto va collocato senz’altro in un futuro molto lontano, ma non infinitamente lontano, poiché presumibilmente si proporrà le stesse mete la cui attuazione il credente si attende dal suo Dio, e cioè l’amore tra gli uomini e la diminuzione della sofferenza. Il nostro apparato psichico si è sviluppato proprio nello sforzo di esplorare il mondo esterno, e deve quindi aver realizzato nella propria struttura un certo grado di congruenza; essa stessa è parte costitutiva di quel mondo che dobbiamo esplorare e consente benissimo tale ricerca; il compito della scienza è assolutamente circoscritto se ci limitiamo a farle dire come il mondo deve apparirci in ragione del carattere particolare della nostra organizzazione (l’apparato psichico); i risultati ultimi della scienza, proprio a causa del modo in cui vengono acquisiti, sono condizionati, non solo dalla nostra organizzazione, ma anche da ciò che su tale organizzazione incide; il concetto di una natura dell’universo non riferita al nostro apparato psichico percettivo è una vuota astrazione, priva di qualsiasi interesse pratico. La scienza non è un’illusione. Sarebbe un’illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che la scienza non è in grado di darci.
Feticismo (1927)
491-97
Freud aveva avuto l’opportunità di studiare con il metodo psicoanalitico un certo numero di uomini la cui scelta oggettuale era dominata da un feticcio. Il caso più peregrino era stato quello di un giovanotto che aveva eretto a condizione feticistica un certo “sfavillio sul naso”; essa trovò una sorprendente spiegazione nel fatto che il paziente, da piccolo, era vissuto in Inghilterra, ma, trasferitosi poi in Germania, aveva dimenticato quasi completamente la sua lingua. Il feticcio, che traeva origine dalla sua più tenera infanzia, non andava letto in tedesco, bensì in inglese. Lo sfavillio (Glanz) era in realtà un’occhiata (glance). Il feticcio, dunque, era il naso. La spiegazione che l’analisi ha dato del significato e degli intenti del feticcio è sempre la medesima. Il feticcio è un sostituto del pene: il pene della donna (della madre) a cui il bambino ha creduto e a cui non vuole rinunciare. Il feticcio è il segno di una vittoria trionfante sulla minaccia di evirazione e una protezione contro quella minaccia; il feticcio, inoltre, evita ai feticisti di diventare omosessuali poiché attribuisce alla donna una caratteristica che la rende tollerabile come oggetto sessuale. Poiché il feticcio è facilmente accessibile, il soddisfacimento sessuale a esso legato è comodo e disponibile. Probabilmente è l’ultima impressione, quella che precede l’evento perturbante e traumatico, a essere trattenuta in guisa di feticcio. In casi estremamente raffinati, nell’edificazione dello stesso feticcio hanno trovato accesso sia il rinnegamento sia il riconoscimento dell’evirazione. Per concludere, si può affermare che il prototipo normale del feticcio è il pene dell’uomo, così come il prototipo dell’organo inferiore è il piccolo pene reale della donna: la clitoride.
L’umorismo (1927)
503-08
Il processo umoristico può compiersi in due modi: o coinvolge una sola persona che assume direttamente l’atteggiamento umoristico, mentre una seconda persona fa la parte dell’osservatore e del fruitore; oppure le persone coinvolte sono due, e mentre una non partecipa affatto al processo umoristico, l’altra fa della prima l’oggetto della sua considerazione umoristica. L’umorismo ha non solo qualcosa di liberatorio, come il motto di spirito e la comicità, ma anche qualcosa di grandioso e nobilitante: e questi tratti non sono rintracciabili negli altri due modi citati di conseguire piacere mediante l’attività intellettuale. La grandiosità risiede evidentemente nel trionfo del narcisismo, nell’affermazione vittoriosa dell’invulnerabilità dell’Io. Attraverso il ripudio delle ragioni della realtà e l’affermazione vittoriosa del principio di piacere l’umorismo si avvicina ai processi regressivi o reazionari di cui ci occupiamo su vasta scala in psicopatologia. La persona che si trova in una determinata situazione sovrainveste improvvisamente il proprio Super-io, e poi altera le reazioni dell’Io. L’arguzia sarebbe il contributo che l’inconscio fornisce alla comicità. Analogamente l’umorismo sarebbe il contributo alla comicità dovuto all’intervento del Super-io. Se il Super-io mira, mediante l’umorismo, a consolare l’Io e a difenderlo dalla sofferenza, così facendo non contraddice affatto la sua provenienza dall’istanza parentale.
Un’esperienza religiosa (1927)
513-16
Nell’autunno del 1927 un giornalista, G. S. Vierek, pubblicò il resoconto di una conversazione con Freud, del quale erano riferite fra l’altro l’assoluta mancanza di fede religiosa e l’indifferenza al problema della sopravvivenza dopo la morte. Questa intervista aveva avuto ampia diffusione; fra le altre cose, Freud ricevette in merito la lettera di un medico americano che narrava la propria esperienza religiosa; aveva visto un giorno nella sala delle autopsie il cadavere di un’anziana signora, dal volto dolce e delicato, e gli era balenato il pensiero che se fosse esistito Dio non avrebbe permesso che fosse portata nella sala anatomica: tuttavia, nel corso dei giorni seguenti, dopo aver meditato a lungo, aveva acquisito la certezza dell’esistenza di Dio. L’esperienza religiosa del collega suggerisce a Freud le seguenti considerazioni. La vista del corpo nudo di una donna che ricorda al giovane la propria madre desta in lui la nostalgia materna legata al complesso edipico, e subito tale anelito è completato da un senso di indignazione rivolto contro il padre. L’idea del padre e quella di Dio non sono ancora, in lui, molto lontane l’una dall’altra; la volontà di annientare il padre può da un lato farsi cosciente sotto forma di dubbi sull’esistenza di Dio e dall’altro volersi legittimare al cospetto della ragione sotto forma di sdegno per il maltrattamento subìto dall’oggetto materno. L’esito della lotta è nell’ambito religioso, ma è prefigurato dal destino del complesso edipico: piena sottomissione alla volontà del Dio padre. Il giovane ha avuto un’esperienza religiosa, si è convertito. Forse la comprensione di questo caso, così trasparente, ha recato un qualche contributo alla psicologia della conversione religiosa in genere.
Dostoevskij e il parricidio (1927)
521-38
Nella ricca personalità di Dostoevskij si possono distinguere quattro aspetti: lo scrittore, il nevrotico, il moralista e il peccatore. Dostoevskij si definì da sé epilettico, e così lo credevano gli altri. È oltremodo probabile che questa cosiddetta epilessia fosse soltanto un sintomo della sua nevrosi e debba essere classificata come isteroepilessia. Gli accessi assunsero forma epilettica soltanto dopo i diciotto anni, quando suo padre morì assassinato. Precedentemente però ebbe a patire di stati di sonnolenza letargica, che avevano un significato di morte. Si sa che questi accessi simili alla morte significano un’identificazione con una persona realmente morta oppure di cui si desidera la morte. Il parricidio è, secondo una nota concezione, il delitto primordiale sia dell’umanità che dell’individuo. È la fonte principale del senso di colpa e deriva dal complesso edipico. Ciò che rende inaccettabile l’odio per il padre è la paura del padre: l’evirazione è terribile, sia come punizione che come prezzo dell’amore. Dei due fattori che concorrono a rimuovere l’odio per il padre si deve definire normale il primo, la paura diretta della punizione e dell’evirazione, mentre l’intensificazione patogena sembra aggiungersi soltanto ad opera dell’altro fattore, l’angoscia per il proprio atteggiamento femmineo. Una disposizione accentuatamente bisessuale diventa così un elemento che rende possibile e rafforza le nevrosi. La pubblicazione delle carte postume di Dostoevskij e dei diari della moglie ha illuminato violentemente un episodio della sua vita: l’epoca in cui, in Germania, egli era dominato dalla febbre del gioco. Un innegabile accesso di passione patologica, che nessuno è riuscito a spiegare altrimenti. Se è vero che la passione del gioco, con le sue lotte vane e ingloriose per perdere il vizio e con le occasioni che offre per l’autopunizione, ripete la coazione onanistica, non ci stupiremo che tale passione si sia conquistata un posto così importante nella vita di Dostoevskij. In tutte le nevrosi gravi ha la sua parte il soddisfacimento autoerotico in età precoce e nella pubertà, e sono note le relazioni fra i tentativi di reprimerlo e la paura del padre.
Il dottor Ernest Jones (per il cinquantesimo compleanno) (1929)
543-44
Fra gli uomini che si diedero convegno nella primavera del 1908 a Salisburgo per il primo Congresso psicoanalitico, subito si segnalò un giovane medico inglese con un breve saggio intitolato Rationalization in Everyday Life. Grazie a esso la psicoanalisi si è arricchita di un concetto importante e di un termine insostituibile. Prima in qualità di professore a Toronto, poi di medico a Londra, fondatore e didatta di un gruppo locale, guida di una casa editrice, direttore di una rivista, capo di un istituto didattico, sempre egli ha agito instancabilmente in favore della psicoanalisi, cercando di diffondere le sue scoperte mediante pubbliche conferenze e difendendola. Jones non solo è considerato il capo indiscusso degli analisti di lingua inglese, ma anche un rappresentante tra i più eminenti della psicoanalisi in genere, un sostegno per i suoi amici e una speranza per il futuro della psicoanalisi.
Un sogno di Cartesio: lettera a Maxime Leroy (1929)
549-51
Maxime Leroy, preparando un proprio libro su Cartesio, sottopose a Freud alcuni sogni del filosofo per ottenere un suo commento. Cartesio aveva descritto queste immagini oniriche, cercando di darne egli stesso una spiegazione, in un manoscritto conosciuto come Olympica, del 1619-20. Nel diciassettesimo secolo l’abate Adrien Baillet pubblicò una traduzione francese dello scritto di Cartesio, conservando tuttavia parecchie delle originarie espressioni latine. Freud afferma che i sogni di Cartesio rientrano nel tipo chiamato “sogni dall’alto”: sono cioè formazioni ideative che avrebbero potuto essere create sia durante lo stato di veglia sia durante il sonno, e che soltanto in certe parti hanno tratto il loro contenuto da stati psichici abbastanza profondi. Questi sogni, dunque, presentano perlopiù un contenuto in forma astratta, poetica o simbolica. L’analisi dei sogni di questo tipo conduce di solito alla seguente conclusione: l’analista non è in grado di comprendere il sogno, ma il sognatore è capace di tradurlo immediatamente e senza difficoltà, dato che il contenuto del sogno è prossimo al pensiero cosciente. Le parti del sogno di cui il sognatore non sa che cosa dire sono proprio quelle che appartengono all’inconscio.