Fonte: G. W. F. Hegel, Viaggio nelle Alpi bernesi, Ibis, Como-Pavia, 1990, pagg. 54-57
A partire da Guttanen la strada si fa sempre piú selvaggia, deserta, monotona. Da entrambi i lati non si hanno che rocce ruvide e tristi. Talora si scorgono vette coperte di neve. Il terreno, che è piú piatto e a tratti forma una valle, è interamente disseminato di enormi blocchi di granito. La Aar forma alcune superbe cascate che precipitano con una forza terribile. Su di una di queste si slancia un audace ponte, passando sul quale si è completamente bagnati dall’acqua nebulizzata. Qui uno può scorgere da vicino il possente infuriare delle onde contro le rocce, chiedendosi come possano sostenere una furia simile. Da nessun’altra parte uno può farsi un concetto altrettanto puro della necessità della natura se non osservando l’eterno infuriare, privo di effetti, eppur sempre ripetuto, di un’onda lanciata contro simili rocce! e tuttavia si vede che i loro angoli acuti a poco a poco sono stati arrotondati. Inoltre si vede come la vegetazione subisca sempre piú la maledizione di una natura priva di calore e di forza. Non si incontrano piú abeti, ma solo cespugli deformi, muschi, un terreno rivestito di un’erba miserevole ed addirittura spoglio, pochi tronchi di larici e cembri; nei dintorni crescono molte genziane. Le radici di queste piante vengono raccolte da una famiglia per distillarne il liquore. Questa famiglia trascorre qui l’estate in completo isolamento dagli uomini ed ha costruito la propria distilleria sotto blocchi turriformi di granito, che la natura ha gettato senza scopo l’uno sull’altro, ma la cui posizione casuale gli uomini hanno saputo sfruttare. Dubito che anche il teologo piú credulo oserebbe qui, su questi monti in genere, attribuire alla natura stessa di proporsi lo scopo dell’utilità per l’uomo, che deve invece rubarle quel poco, quella miseria che può utilizzare, che non è mai sicuro di non essere schiacciato da pietre o da valanghe durante i suoi miseri furti, mentre sottrae una manciata d’erba, o di non aver distrutta in una notte la faticosa opera delle sue mani, la sua povera capanna e la stalla delle mucche. In questi deserti solitari gli uomini colti avrebbero forse inventato tutte le altre scienze e teorie, ma difficilmente quella parte della fisico-teologia che dimostra all’orgoglio dell’uomo come la natura ha preparato ogni cosa per il suo godimento e il suo benessere; un orgoglio che al tempo stesso caratterizza la nostra epoca, in quanto trova il suo appagamento piú nella rappresentazione per cui tutto è stato fatto per esso da un’entità estranea che non nella coscienza per cui è propriamente egli stesso che ha attribuito alla natura tutti questi scopi. Pure gli abitanti di questi luoghi vivono nel sentimento della loro dipendenza dalla forza della natura e ciò conferisce loro una quieta rassegnazione rispetto ai suoi scatenamenti distruttivi. Se la loro capanna è distrutta, o sepolta da una slavina, o spazzata via, ne costruiscono un’altra nello stesso posto o nei pressi. Anche se spesso su un sentiero gli uomini sono stati colpiti da una caduta di massi, continuano tranquillamente a percorrerlo, diversamente dagli abitanti delle città che solitamente trovano distrutti i propri scopi solo dalla loro stessa insipienza o dalla cattiva volontà altrui e diventano perciò intolleranti e impazienti anche quando provano infine la forza della natura e quindi hanno bisogno di conforto e lo trovano, ad esempio, nelle chiacchiere che dimostrano loro che anche una sventura può forse riuscir loro vantaggiosa, perché non possono sollevarsi al punto da abbandonare il proprio utile. Esigere che rinuncino ad essere in qualche modo risarciti vorrebbe dire derubarli del loro dio.
[…] Né l’occhio, né l’immaginazione su questi massi informi trovano un punto su cui quello possa sostare con piacere o quella possa trovare un’occupazione o uno spunto per il suo libero gioco. Solo il mineralogista trova materia per rischiare avventate congetture circa le rivoluzioni di queste montagne. La ragione nel pensiero della durata di queste montagne, o nel tipo di sublimità che si ascrive loro, non trova nulla che le si imponga e strappi stupore e meraviglia. La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, del: è cosí.