Introduzione
Come arrangiarsi con il reale della sofferenza se la funzione di velo dell’ideale dell’io è indebolita o addirittura compromessa? Come affrontare la questione dell’identità in un’epoca della vita dove irrompe l’urgenza traumatica della pulsione che accompagna i cambiamenti corporei, dove la ricerca di un proprio modo di abitare il mondo diventa cruciale? Come affrontare il trauma del ritorno del rimosso e lo sforzo che il soggetto porrà per difendersene? Ecco le sfide a cui sono chiamati gli adolescenti da sempre. E oggi?
Il brulicare dei saperi su di loro è centuplicato e assistiamo sia a una proliferazione di diagnosi sia alla spasmodica ricerca di metodi educativi, più o meno standardizzabili, spesso impersonali, per poterli “gestire”. L’incertezza ci disorienta, è insopportabile e lo è ancor di più nell’epoca del godimento solitario che esclude l’altro, per così proteggersi dalla sua capricciosità, e l’adolescente spesso è chiamato a prendersi la responsabilità della propria condizione, ma senza essere ancora pronto.
Quella dell’adolescenza è una categoria che non è sempre esistita, è una “costruzione” sociale che è avvenuta nel tempo. Nella storia gli adolescenti erano considerati come adulti (basta pensare a Giulio Cesare che all’età di soli 15 anni già intimoriva il sanguinario Silla che tentò più volte di ucciderlo), poi man mano sono stati considerati come categoria a sé, fino a diventare quel regno di mezzo tra l’essere bambino e la vita adulta che, se da un lato ha favorito le identificazione tra pari, ne ha rallentato dall’altro il processo di “identificazione” all’adulto, oltre ad aver incoraggiato quell’atteggiamento procrastinante, tipico di chi sposta sempre più in là l’entrata nel mondo dei “grandi”.
L’assottigliarsi del “velo” che in passato limitava l’impatto del trauma della vita espone l’adolescente al rischio di fare i conti troppo presto con il “niente” che abita il reale – basta pensare alla facilità con cui si rendono accessibili oggi quei contenuti che violano le più elementari norme sociali e morali – e la questione per chi se ne occupa diventa spesso quella di sostenere il soggetto nel “nominare” qualcosa di questo reale, affinché possa essere soggettivato.
Da sintomo o oggetto della coppia genitoriale l’adolescente è chiamato a dover fare i conti con un proprio sintomo, in un’epoca in cui l’appiattimento degli ideali a favore degli oggetti del godimento (che Miller scrive con “a>I”) lo spinge a sentirsi “dannatamente” nel vero quando pretende che le sue richieste siano esaudite nell’immediato. Assistiamo così ad una sempre maggiore affermazione di un certo sapere che esclude l’altro, che spinge all’isolamento, lo si vede bene per esempio nelle variegate forme di “desideri irresistibili” che però sono spesso “senza desiderio”: gaming, social media, sostanze. Il desiderio infatti implica una ricerca di qualcosa che manca, ricerca che indirizziamo all’Altro. Infondo l’Edipo ci mostra che l’essere umano non è semplicemente un animale perché “deve” conciliare la pulsione con il desiderio, che divergono. È l’oggetto che deve essere reperito in questa divergenza. Nell’Altro cerchiamo qualcosa, l’oggetto a. Ma per poterlo cercare è necessario aver perso qualcosa, per potersi attivare e iniziare la ricerca è necessario che prima sia avvenuta l’alienazione nell’Altro. È qui che si annida la questione: l’io per Lacan è una immagine speculare del corpo, esso si forma fuori di sé come effetto di una alienazione nell’immagine stessa accompagnata dalle parole dell’Altro. Immagini e parole costringono il reale biologico a regolarsi, a umanizzarsi. Il soggetto si produce nella separazione, come secondo momento costitutivo che rappresenta il tentativo di recuperare qualcosa del movimento iniziale di costituzione del soggetto, in risposta all’alienazione nell’Altro, nelle sue parole. È il momento in cui il soggetto si libera (mai del tutto a dire il vero) rinunciando all’identificazione che gli viene offerta, per muoversi verso il desiderio di altro.
Ma cosa succede nei soggetti dove questo processo di alienazione non si realizza o è fortemente compromesso? Condizione a cui oggi assistiamo sempre più spesso? Al posto di una risposta preferisco proporre qui di seguito una riflessione sulla nascita del soggetto a partire dal nodo borromeo, al quale ho aggiunto delle lettere greche per indicare i “sopra-sotto” delle corde, ossia quei momenti cruciali che scandiscono la vita del soggetto non tanto dal punto di vista evolutivo o stadiale, ma soprattutto dal punto di vista logico e per favorire una riflessione clinica piuttosto che proporre delle soluzioni. Anzi, nel lavoro con gli adolescenti e i minori in genere si tratta proprio di accettare la mancanza di risposte certe e definitive, e dunque siamo chiamati a tollerare l’assenza di quelle garanzie rassicuranti tanto anelate. Credo che questa sia la sfida più importante da superare per chi se ne occupa e in genere per tutti gli adulti.
Il nodo e il soggetto
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Come possiamo definire quando un bambino o un adolescente diventa adulto? L’origine e la fine della vita, nonostante le conquiste scientifiche siano tante ormai, resta indefinita. C’è un vuoto del simbolico. Enigma irriducibile dell’origine e della fine. L’essere umano è immerso nel simbolico fin dalla nascita, si muove nel mondo con un nome scelto da altri e per farlo risulta necessario un filo simbolico tessuto da qualcuno, non importa chi, l’importante è che ci sia: una persona, l’orfanotrofio o chiunque altro. È necessario il desiderio dell’Altro, il filo del desiderio dell’Altro che filtra, pone i primi parametri simbolici della vita. Lacan non si pone in una prospettiva evolutiva, ma parla di vicissitudini del desiderio, che è sempre erratico e insoddisfatto. Il desiderio è caratterizzato dall’essere insoddisfatto, a differenza della pulsione che arriva sempre alla sua meta (proprio come accade nelle addictions). La complessità della dimensione umana è questa immersione del biologico nel simbolico. L’essere umano è esiliato dalla biologia nel linguaggio, nella cultura. Da questo punto di vista il bambino e con esso l’adolescente, sono delle “invenzioni” nel senso che è l’interesse genitoriale che li costituisce.
Alla nascita il bambino è uno sconosciuto, finanche per la madre. Solo il desiderio può dare una fisionomia al bambino, quello di accogliere uno sconosciuto, di fargli posto ma non in modo anonimo o impersonale.
Eccoci arrivati al nodo borromeo. Il primo intreccio che notiamo è tra R e S (α) che possiamo ricondurre all’azione del prendersi cura dell’Altro e che serve a stabilizzare le spinte che il bambino riceve dall’interno dell’organismo (fame, sete, sonno…) e dall’esterno (freddo, caldo, pericoli…). Accanto al neonato c’è qualcuno, c’è un prossimo, è il primo Altro del bambino che può essere la madre o chi per essa. C’è il bambino, il reale biologico e l’Altro accanto. Il primo Altro reale che indica la presenza del simile indica la separazione, la prima realtà esterna, estranea, il primo oggetto di soddisfacimento e allo stesso tempo il primo oggetto ostile perché in grado di rifiutare l’aiuto necessario per sopravvivere, per soddisfare i bisogni essenziali, in altre parole, essendo l’unica risorsa di sostentamento, fondamento per la sopravvivenza, è anche il primo oggetto di ostilità, proprio perché può determinare la vita (l’origine) ma anche la morte (la fine). Il non plus ultra del non-garantito.
Il primo Altro può rifiutarsi di dare un aiuto, può rifiutarsi di soddisfare il bisogno e questo può produrre un segnale di dolore, inoltre egli è un essere parlante, orientato dal suo desiderio, è l’oggetto primordiale intorno al quale ruoterà la ricerca, il suo stesso desiderio.
A causa della sua prematurazione il bambino è incapace di stare da solo al mondo. Egli mostra già nella risposta al suo stare al mondo una sua singolarità. Ogni bambino è diverso dall’altro, nasce, si inventa, tra autonomia e relazione con l’altro, è qui che si gioca lo sviluppo. Egli da subito è chiamato ad una relazione. È questa una responsabilità a cui è chiamato. Piange, la madre risponde e trasforma il grido in domanda e risponde come crede a questa domanda. Il bambino dovrà adeguarsi a questa sua risposta. Magari le madri quando dicono che ha freddo in realtà egli ha caldo, tuttavia il figlio trova un suo accomodamento nella risposta della madre, che è una domanda di amore, una domanda incondizionata che resterà sempre insoddisfatta.
Occorre rispondere al grido, occorre assumersi la responsabilità di rispondere a questo appello, accettando quindi la mancanza di completezza nella risposta. La domanda essendo di amore incondizionato passa attraverso la concezione di desiderio incondizionato che è sempre particolare ed grazie a questa unicità che il soggetto riesce a orientarsi nel mondo. Nel fondo delle varie sofferenze (siano esse nevrotiche, siano psicotiche) si trova sempre un’incertezza del desiderio dell’Altro genitoriale che è fondamentale per reperire un proprio filo simbolico per andare avanti nella vita. È interessante questo punto: con gli adolescenti non possiamo avere certezze o garanzie, ma il desiderio di farsi carico della loro sofferenza o di rispondere al loro appello, deve essere deciso.
In (β) è l’immaginario a passare sopra il Reale, cioè il bambino qui si rende conto di avere un posto speciale nell’Altro, di essere oggetto di attenzioni, di ammirazione. Il bambino è “fallicizzato”, diventa “His Maestry the Baby”, di cui Freud parla in Introduzione al narcisismo: il bambino è investito libidicamente dai genitori. Lo sguardo pieno di adorazione e di apprezzamento rappresenta la vera prima fallicizzazione del bambino.
L’illusione che rende apprezzabile, ammirevole il reale insensato dell’organico rendendolo “Sua Maestà il Bebè”, ci conduce al terzo intreccio (γ), dove il simbolico passa sopra l’immaginario. Il bambino non può essere un sovrano per troppo tempo, è necessario che faccia i conti presto con questo limite. Ecco che l’ordine simbolico prevale su quello immaginario ma non può prevalere sul reale del corpo, sulla sua dimensione organica: un bambino che sta male lo si accudisce, ci si prende cura di lui. Il simbolico agisce sulla dimensione narcisistica, è una prima forma di castrazione simbolica: è la dimensione dell’educazione e non del mero rafforzamento volto ad addestrare alla sopportazione del dolore (caso in cui il simbolico agirebbe direttamente sul reale), come sembra voler promuovere una certa vulgata sostenitrice della psychological resilience.
In (δ) di nuovo il reale passa sopra il simbolico, cioè l’Altro continua a stabilizzare, a limitare le pretese pulsionali del bambino, dando sollievo ai suoi bisogni (es. svegliandosi di notte per rispondere ai suoi pianti, rassicurandolo, standogli vicino, essendogli presente quando è impaurito, angosciato…). Nessun manuale può aiutare fino in fondo i genitori. In alcuni casi il rischio è quello di soddisfare tutte le richieste del bambino, di colmarli di cure e di oggetti spegnendo ogni sua mancanza, in alcuni casi si verifica il contrario: incuria a livello fisico e psichico. Anche se si riesce a evitare questi due estremi, e nonostante tutte le conoscenze che abbiamo sull’infanzia e l’adolescenza e tutte le cure che mettiamo in atto: c’è sempre qualcosa che non va, c’è sempre un resto. L’dea che la scienza non solo possa ma debba colmare questo vuoto è sempre più evidente, basti pensare alla frustrazione che a volte sfocia nella rabbia di chi, deluso nelle sue aspettative e dopo aver delegato tutto all’Altro curante, si trova a fare i conti con l’impossibile da guarire e dunque con il limite che anche il sapere scientifico ha. Anche la scienza è diventata un oggetto di consumo, si pretende da essa la massima garanzia di riuscita. Ma c’è dell’impossibile da curare, a volte non è possibile neanche stabilizzare alcuni quadri clinici ed è importante in questi casi sostenere i genitori a non demordere. Il bambino occorre che sia accolto da questa assenza di garanzia. Si tratta di sostenere i genitori nel coltivare un pochino di questo ignoto, di questa mancanza che si può solo circoscrivere. Di fronte a questo vuoto generato dal tentativo di riportare tutto il “reale” della sofferenza al simbolico “standardizzante”, all’introvabile spiegazione che non arriva “mai-tutta”, la psicoanalisi può ritagliarsi il suo posto tra le pratiche di trattamento dei disagi legati all’adolescenza, capovolgendo la questione: il soggetto si chiede cosa l’Altro si aspetta da lui, è questa la domanda con la quale ciascun analista si trova a che fare quando accoglie qualcuno nel suo studio, sia esso un adolescente sia esso un genitore. Il soggetto è tormentato dalla domanda dell’Altro, non è mai da solo di fronte allo specchio dove si fondano tutti gli aspetti narcisistici e paranoici del mondo, dove si cristallizza qualcosa che non sarà mai, la padronanza di sé e del corpo, ed è per questo che è importante (in particolare per il minore) che sia accompagnato dallo sguardo desiderante e amorevole di qualcuno.
Lo specchio crea una “disunità” che nessun altro “specchio” potrà ricomporre. Ecco perché lo sguardo del genitore è importante, è lì che il bambino inizia a riconoscersi come soggetto. I bambini riescono a tollerare la propria immagine allo specchio grazie alla presenza dell’adulto. Se la formazione dell’io è l’effetto dell’alienazione immaginaria dello stadio dello specchio, ad un certo punto il bambino sarà in grado di compiacersi della propria immagine nello sguardo amorevole dell’Altro e dunque si sposterà dallo specchio verso lo sguardo dell’Altro che lo ammira. È il bambino amato, desiderato, perché intelligente, bravo, sveglio e così via. Il bambino quindi farà tutto il possibile per continuare a mantenere questa posizione raggiunta. Ecco che qui si colloca la questione dell’Io Ideale, cioè il bambino rincorre quei tratti che i genitori gli rinforzano coi loro sguardi di approvazione e apprezzamento. Il risultato è che l’immaginario di nuovo si alimenta senza tenere conto del reale che detta i suoi limiti. L’alienazione nell’Io Ideale spesso risulta essere una delle questioni centrali nella cura psicoanalitica. Lo specchio diventa il grande Altro, il suo sguardo che funge da specchio al soggetto che guarda. L’immagine del bambino sarà fallicizzata proprio a partire dallo sguardo e dalla voce del grande Altro che essendo mancante rinvia a sua volta a una mancanza. Ma il bambino, qui si sente rassicurato dallo sguardo benevolo e colmo di ammirazione della mamma o del papà. Sul nodo borromeo assistiamo quindi al sovrapporsi, ancora una volta, dell’immaginario sul reale (ε).
Abbiamo poi un altro intreccio ancora, un sesto e ultimo: il simbolico nuovamente passa sopra l’immaginario (ζ), è il momento della castrazione simbolica. È il momento in cui inizia a dover dormire da solo in camera, a fare qualcosa senza l’altro e la “madre” non è tutta sua ma il bambino coglie che è ella ricerca di qualcun altro, il “padre” e che ora dovrà arrangiarsi da solo, semmai con una copertina o un giocattolo che gli farà da compagnia quando dovrà dormire da solo.
Sono questi intrecci che si fanno e si disfanno più volte e in più fasi della vita e con attori sempre diversi. L’Edipo potrà essere uno dei modi per uscire da questo continuo intrecciarsi e sfilacciarsi. Sicuramente non è l’unico.
Conclusioni
L’acquisizione del linguaggio nell’essere umano non è naturale. Il linguaggio è fondamentale perché struttura un certo modo di rispondere a qualcuno ma se non abbiamo qualcuno a cui rispondere, è molto probabile che ci saranno delle difficoltà nella parola. Il bambino parla per rispondere all’interesse che si mostra verso di lui. La parola è sempre una parola rivolta all’altro, anche quando si produce in solitudine, è rivolta all’altro in sua assenza. Avere una relazione di linguaggio è una questione estremamente complessa. I bambini “usano” gli adulti come una protesi, li tirano per la mano, li spingono, non riescono ad avere un’immagine di sé senza loro, sono per certi versi obbligati dal discorso umano a muoversi rispondendo alla voce dell’Altro che è il primo degli oggetti. Il bambino prima di vedere, risponde diversamente alle varie voci, questo gli consente di inventarsi, di costruirsi, di giorno in giorno, imparando a parlare e a conoscere il proprio corpo. E quando il desiderio dell’altro non c’è, fanno fatica a inserirsi nel circuito della vita.
Il soggetto passa dalla domanda all‘Altro alla domanda dell‘altro, è lui che deve dare qualcosa. Il bambino infatti troppo accomodato nel godimento soddisfatto può non avere nessuna voglia di passare, di capovolgersi nel momento strutturale in cui dovrà essere lui a dare qualcosa. In cambio di cosa? Il bambino fa dono della privazione della sua pulsione. L’Altro chiede al bambino un sacrificio pulsionale, chiede di disciplinarsi, in cambio del suo amore. Ferite, marchi, stigmate di vittoria o di sconfitta, non stadi. Nulla di naturale. Ogni bambino è diverso, ognuno avrà il suo incontro con le contingenze della vita. Non c’è una regola fissa. Ogni contesto sociale ha i suoi ritmi di sviluppo. Ogni famiglia la propria storia, le proprie credenze, i propri S1-S2.
È importante che ogni bambino si inserisca nel suo mondo simbolico, quindi non possiamo parlare di disturbi dello sviluppo senza tenere conto di ciò, ma possiamo semmai parlare di problematiche del soggetto.
Il bambino fin che può si adegua, sono i genitori che spesso vanno in crisi e per questo è necessario sostenerli. Il bambino fin che può cerca di adattarsi, quando questo adattamento diventa eccessivo accomodamento, si possono manifestare dei disagi. Sono sempre maggiori quelli connessi alla relazione, anche precocemente. Il bambino si distacca dal seno per poi addormentarsi, un modo per proteggersi dall’angoscia, così come accade a quei soggetti che fanno fronte all’angoscia derivante dalla capricciosità del loro Altro curandosi con gli oggetti di cui sono dipendenti. Il bambino fin da subito risponde all’altro cercando una supplenza. Ecco la prematurazione: l’Altro ci è necessario, occorre tenerlo a sé per poter salvare la propria vita. Ma nessuno potrà garantire che le risposte saranno quelle giuste. Nessuno può essere un genitore perfetto e colmare ogni mancanza del soggetto che fin dalla nascita gioca la sua partita nella vita. Partita che tra l’altro sarà giocata non tanto come una questione di unione, ma di distacco: svezzamento, controllo sfinterico, parlare. Il genitore è chiamato a dare le cure e allo stesso tempo a rinunciarci, a lasciar un po’ andare, ma spesso il narcisismo genitoriale viene ferito da quegli inciampi legati ai vari momenti di distacco e sarà propenso a leggerli come segni precoci di un disturbo. Occorre che il genitore tolleri la scontentezza. Se si pretende che il bambino sia sempre contento sarà impossibile non solo accompagnarlo nelle varie fasi di crescita ma sarà anche molto più difficile cogliere quei problemi che potrebbero realmente esserci. Non si tratta di cercare una perfezione, anzi, si tratta di accettare l’impossibilità dei genitori di essere bravi o buoni. Accettare di mancare, di supplire quella mancanza con il proprio desiderio, desiderio che può anche tollerare l’esistenza di qualche malessere, perché il narcisismo dei genitori è l’estremo rifugio di tutto il narcisismo umano. È molto importante tenerne conto nei colloqui con loro. Non importa quale sia la teoria più vera o efficace, quello che conta è ciò che li fa funzionare, che consente loro di sentirsi riconosciuti come soggetti che possano a loro volta riconoscere il figlio come un soggetto e non come un oggetto che appartiene a loro. È un percorso che da soli non sempre riescono a fare e che consiste, in alcuni casi, soprattutto nel valorizzare ciò che già loro fanno per potersi distaccare un po’ dal figlio, piuttosto che dire loro cosa dovrebbero o non dovrebbero fare, meglio valorizzare le loro invenzioni.