Tratto da Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 246-249 – I. Kant, Critica della ragion pura, Parte II, Analitica trasc., II, cap. III.
Il pensiero è l’operazione di riferire un’intuizione data a un oggetto. Se la maniera di questa intuizione non è data in nessun modo, l’oggetto è puramente trascendentale, e il concetto dell’intelletto non ha altro uso che trascendentale, cioè quello della unità del pensiero di un molteplice in generale. Ora mediante una categoria pura – nella quale si astrae da ogni condizione dell’intuizione sensibile, come dell’unica per noi possibile – non viene dunque determinato nessun oggetto, ma solo espresso in diversis modis il pensiero di un oggetto in generale. All’uso di un concetto occorre ancora una funzione del giudizio, secondo la quale un oggetto viene sussunto in quello: dunque la condizione almeno formale, sotto la quale alcunché può essere dato nell’intuizione. Se manca questa condizione del giudizio (schema), ogni distinzione cade; poiché nulla viene dato che possa esser sussunto nel concetto. L’uso puramente trascendentale delle categorie non è dunque, nel fatto, alcun uso, e non ha oggetto determinato o anche solo determinabile secondo la forma. Da ciò segue, che anche la categoria pura non è sufficiente per nessun principio fondamentale sintetico a priori, e che i princípi fondamentali dell’intelletto puro sono soltanto di uso empirico, mai trascendentale, mentre che al di sopra del terreno dell’esperienza possibile non vi possono essere, in generale, princípi sintetici a priori.
Può essere pertanto consigliabile di esprimersi cosí: le categorie pure, senza condizioni formali della sensibilità, hanno significato puramente trascendentale, ma non sono d’uso trascendentale, perché questo è in se stesso impossibile, in quanto mancano loro le condizioni di qualsiasi uso (nei giudizi), cioè le condizioni formali della sussunzione, in questi concetti, di un qualsiasi oggetto supponibile. Poiché esse dunque (come semplicemente categorie pure) non devono essere di uso empirico e non possono essere di uso trascendentale, non hanno nessun uso quando vengano separate dalla sensibilità, ossia non possono venir applicate a nessun oggetto ipotetico. Piuttosto, esse sono semplicemente la forma pura dell’uso dell’intelletto in rapporto agli oggetti in generale e al pensiero, senza però poter pensare o determinare mediante esse sole alcun oggetto.
Intanto si trova qui, alla base, un’illusione difficile a evitare. Le categorie, secondo la loro origine, non si fondano sulla sensibilità, come le forme dell’intuizione, spazio e tempo; sembrano dunque ammettere un’applicazione ampliata oltre tutti gli oggetti dei sensi. Ma esse non sono per parte loro, una volta ancora, nient’altro che forme del pensiero, che semplicemente contengono la possibilità logica, di unificare in una coscienza a priori il molteplice dato nell’intuizione. E perciò, quando si tolga loro l’unica intuizione per noi possibile, esse possono avere ancor meno significato che quelle forme sensibili pure, mediante le quali ancora almeno vien dato un oggetto; mentre che una maniera di unificazione del molteplice propria del nostro intelletto, se non interviene quell’intuizione in cui soltanto questo molteplice può esser dato, non significa nulla.
Tuttavia nel nostro concetto, quando denominiamo certi oggetti fenomeni, enti sensibili (phaenómena), distinguendo il nostro modo di intuirli dalla loro natura in sé, c’è già che noi, per dir cosí, contrapponiamo ad essi o questi oggetti stessi in questa loro natura in sé (quantunque in essa noi non li intuiamo), o anche altre cose possibili, ma che non sono per niente oggetto dei nostri sensi, come oggetti semplicemente pensati dall’intelletto, e li chiamiamo enti intelligibili (noúmena). Ora si domanda se i nostri concetti intellettuali puri non abbiano significato in relazioni a questi ultimi [noumeni], e non possano essere una maniera di conoscenza di essi.
Ma fin da principio si rivela qui un’ambiguità, che può dar occasione a grave fraintendimento: che, siccome l’intelletto, quando esso denomina semplicemente fenomeno un oggetto in una relazione, oltre a questa relazione si fa pure una rappresentazione di un oggetto in se stesso e perciò si rappresenta la facoltà di poter formare anche concetti di cotali oggetti e – siccome l’intelletto non ne fornisce altri che le categorie – l’oggetto nel secondo significato dovrebbe almeno poter essere pensato mediante questi concetti intellettuali puri. Ma con ciò l’intelletto vien traviato a considerare il concetto interamente indeterminato di un ente intellettuale come un qualche cosa di generalmente esterno alla nostra sensibilità, come un concetto determinato di un’essenza, che noi possiamo in qualche maniera conoscere mediante l’intelletto.
Se noi per noumeno intendiamo una cosa, in quanto essa non è oggetto della nostra intuizione sensibile, in quanto astraiamo dalla nostra maniera di intuirla, questo è un noumeno di significato negativo. Ma se noi per esso intendiamo un oggetto di una intuizione non sensibile, assumiamo una particolare maniera di intuizione, cioè l’intellettuale, che però non è la nostra e della quale non possiamo neppure intravedere la possibilità, e questo sarebbe il noumeno di significato positivo.
La dottrina della sensibilità è allora in pari tempo la dottrina dei noumeni di significato negativo, ossia di cose, che l’intelletto deve pensare senza questa relazione alla nostra maniera di intuire, dunque non semplicemente come fenomeni, ma come cose in se stesse, delle quali esso però in tale separazione concepisce ad un tempo, che non potrebbe fare nessun uso delle sue categorie per considerarle in tal modo, perché queste hanno significato solo in relazione all’unità delle intuizioni nello spazio e nel tempo, ma appunto possono determinare questa unità mediante concetti universali di connessione a priori solo a causa della pura idealità dello spazio e del tempo. Dove non si può trovare questa unità temporale, precisamente nel noumeno, cessa pienamente l’intero uso, anzi ogni significato delle categorie; perché nemmeno si lascia piú intravedere la possibilità delle cose, che devono corrispondere alle categorie. Ma la possibilità di una cosa non può essere mai dimostrata solamente movendo dalla non contraddittorietà di un concetto di essa, ma solo mediante il fatto che si prova questo con un’intuizione a esso corrispondente. Quando noi dunque volessimo applicare le categorie a oggetti, che non vengono considerati come fenomeni, dovremmo porne a fondamento una intuizione diversa dalla sensibile, e allora l’oggetto sarebbe un noumeno di significato positivo. Siccome una intuizione siffatta, ossia intellettuale, si trova assolutamente all’infuori della nostra facoltà di conoscere, anche l’uso delle categorie non può in alcun modo estendersi oltre i limiti degli oggetti dell’esperienza. E se agli enti sensibili corrispondono certamente essenze intellettuali, si possono dare anche essenze intellettuali con le quali la nostra facoltà d’intuizione sensibile non ha relazione alcuna: ma i nostri concetti dell’intelletto, come pure forme di pensiero per la nostra intuizione sensibile, non si estendono minimamente fino ad essi. Pertanto ciò che da noi vien denominato noumeno, deve come tale essere inteso soltanto con significato negativo. […]
Il concetto di un noumeno è dunque solamente un concetto limite, per delimitare la misura della sensibilità, e dunque soltanto di uso negativo. Esso non è tuttavia costruito arbitrariamente, ma è connesso con la limitazione della sensibilità, senza poter porre però alcunché di positivo all’infuori dell’estensione di essa.