Fonte: Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 132-135
Se l’intelletto in generale vien definito per la facoltà delle regole, il Giudizio è la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualche cosa stia o no sotto una regola data (casus datae legis). La logica generale non contiene punto prescrizioni pel Giudizio, né può contenerne. Giacché, astraendo essa da ogni contenuto della conoscenza, non le resta a trattare se non della semplice forma della conoscenza, per distinguerla analiticamente in concetti, giudizi, sillogismi, e cavarne le regole formali di tutto l’uso dell’intelletto. Se volesse poi indicare in maniera generale, come si debba sussumere sotto queste regole, distinguere cioè se qualcosa vi rientri o no, questo non potrebbe avvenire altrimenti che, ancora, mediante una regola. Ma questa, appunto perché regola, esige da capo un ammaestramento del Giudizio; e così si vede che l’intelletto bensì è capace di istruirsi e munirsi con regole, ma il Giudizio è un talento particolare, che non si può insegnare, ma soltanto esercitare. Quindi il Giudizio è l’elemento specifico del così detto ingegno naturale, al cui difetto nessuna scuola può supplire; perocché, per quanto a un intelletto limitato questa possa somministrare e, per così dire, innestare in grande abbondanza regole tolte dalla scienza altrui, la capacità tuttavia di servirsene rettamente deve appartenere allo stesso scolaro; e non c’è regola che si possa suggerire a tale scopo, la quale, in mancanza d’un tal dono di natura, sia sicura dall’abuso. Quindi un medico, un giudice, un uomo di Stato può avere nella testa molte belle regole patologiche, giuridiche, politiche, tanto da poterne essere egli stesso un profondo maestro, e tuttavia all’applicazione sbagliare facilmente, o perché manchi di Giudizio naturale (sebbene non manchi di intelletto) e comprenda bensì l’universale in abstracto, ma non sappia decidere se un caso particolare in concreto vi rientri, o anche per non essere stato sufficientemente indirizzato a un tal giudizio mediante esempi e casi pratici. L’unica e grande utilità degli esempi è questa, che acuiscono il Giudizio. Perché, quanto alla giustezza e precisione della comprensione intellettuale, essi piuttosto vi recano comunemente pregiudizio, poiché solo raramente adempiono adeguatamente alla condizione della regola (come casus in terminis) e, oltre a ciò, indeboliscono spesse volte quello sforzo dell’intelletto a comprendere nella loro sufficienza le regole in generale e indipendentemente dalle particolari circostanze dell’esperienza, e abituano quindi, alla fine, ad adoperare quelle regole più come formule che come principi. Così gli esempi sono le dande del Giudizio, e chi manca di talento naturale nel giudicare, non può mai farne a meno. Ma, quantunque la logica generale non possa dare nessuna prescrizione al Giudizio, ben diversa è la cosa per la trascendentale; anzi quest’ultima pare abbia l’ufficio speciale di rettificare e assicurare il Giudizio nell’uso dell’intelletto puro, mercé regole determinate. Perocché a produrre un’estensione dell’intelletto nel dominio delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia apparisce non necessaria o piuttosto male applicata; poiché con tutti i tentativi finora fatti s’è guadagnato ben poco o niente terreno; ma, come Critica, per prevenire i passi falsi del Giudizio (lapsus iudicii) nell’uso di quei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo (benché l’utilità non sia allora se non negativa), la filosofia interviene con tutto il suo acume e il suo controllo. Ma la filosofia trascendentale ha questo di peculiare, che oltre la regola (o piuttosto condizione generale per le regole), che è data nel concetto puro dell’intelletto, può nello stesso tempo indicare a priori il caso, a cui la regola devesi applicare. La causa del vantaggio, che essa ha in questo punto, al disopra di ogni altra scienza teorica (salvo la matematica), sta in ciò: che essa tratta dei concetti che si debbono riferire a priori ai loro oggetti, e il cui valore obbiettivo perciò non può essere dimostrato a posteriori; perché ciò non deciderebbe punto di cotesta loro dignità; ma essa deve insieme esporre nei caratteri generali, ma sufficienti, le condizioni in cui gli oggetti possono esser dati in accordo con quei concetti; senza di che questi sarebbero vuoti d’ogni contenuto, quindi forme logiche e non concetti puri dell’intelletto.
Questa dottrina trascendentale del Giudizio, conterrà dunque due capitoli: il primo, che tratta della condizione sensibile, in cui soltanto possono essere adoperati i concetti puri dell’intelletto, cioè dello schematismo dell’intelletto puro; il secondo, invece, di quei giudizi, sintetici, che derivano a priori, sotto queste condizioni, da concetti puri dell’intelletto, e che sono base di tutte le altre conoscenze a priori, cioè dei princìpi dell’intelletto puro.