Fonte: Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 102-109
I giuristi, quando trattano di facoltà e pretese, distinguono in una questione giuridica quel che è di diritto (quid iuris) da ciò che si attiene al fatto (quid facti); ed esigendo la dimostrazione dell’uno e dell’altro punto, chiamano la prima, quella che deve dimostrare il diritto, o anche la pretesa, deduzione. Noi ci serviamo di una quantità di concetti empirici senza opposizione da parte di nessuno; e ci riteniamo autorizzati, anche senza deduzione, ad attribuir loro un senso e una portata quale noi ce l’immaginiamo, perché in ogni tempo noi disponiamo dell’esperienza per provare la loro realtà obbiettiva. Vi sono intanto anche alcuni concetti usurpati, ad esempio quelli di felicità, destino, che circolano in verità tra l’indulgenza quasi generale, ma che talora vengon messi in questione, con la domanda: quid iuris’? Nel qual caso ci si trova in imbarazzo non piccolo per la loro deduzione, non essendo possibile addurre nessun fondamento evidente di diritto, né dall’esperienza, né dalla ragione, per rendere manifesta la legittimità del loro uso.
Ma fra i concetti di varie specie, che formano il tessuto così svariato della umana conoscenza, se ne danno, che sono determinati anche per l’uso puro a priori (del tutto indipendentemente da ogni esperienza): e, di questi, il diritto ha sempre bisogno di essere dedotto; giacché per la legittimità di un tal uso non sono sufficienti le prove ricavate dall’esperienza; ma è necessario sapere altresì come questi concetti possano riferirsi ad oggetti, mentre non traggono punto la loro legittimità dall’esperienza. Chiamo quindi deduzione trascendentale la spiegazione del modo in cui i concetti a priori si possono riferire ad oggetti, e la distinguo dalla deduzione empirica, la quale mostra in che modo un concetto è acquistato per mezzo dell’esperienza e della riflessione su di essa, e quindi riguarda, non la legittimità, ma il fatto onde risulta il possesso.
Abbiamo adesso già due specie di concetti, di genere affatto diverso, i quali però si accordano l’uno e l’altro in questo, che si riferiscono ambedue assolutamente a priori agli oggetti: cioè i concetti dello spazio e del tempo, come forme della sensibilità, e le categorie, come concetti dell’intelletto. Voler tentare di esse una deduzione empirica, sarebbe fatica del tutto sprecata; poiché il carattere differenziale della loro natura è appunto in ciò, che esse si riferiscono ai loro oggetti senza aver nulla tolto dalla esperienza per la loro rappresentazione. Se ne è, dunque, necessaria una deduzione, questa dovrà essere sempre trascendentale.
Intanto di questi concetti, come di ogni conoscenza, si può ricercare nell’esperienza, se non il principio della loro possibilità, le cause tuttavia occasionali del loro sorgere; così le impressioni dei sensi danno la prima spinta a spiegare tutta la nostra attività conoscitiva per rispetto a loro, e a costituire l’esperienza; la quale contiene due elementi di assai diversa natura, cioè una materia per la conoscenza, che viene dai sensi, e una certa forma per ordinarla, proveniente dalla fonte inferiore del puro intuire e del pensiero; i quali sono per la prima volta messi in grado di funzionare e di produrre concetti all’occasione fornita dai sensi. Ma tale ricerca dei primi sforzi della nostra attività conoscitiva per salire dalle singole percezioni ai concetti generali, ha senza dubbio la sua grande utilità, e bisogna esser grati al celebre Locke, che vi ha per il primo aperta la via. Per altro, una deduzione dei concetti puri a priori non può aversi mai per mezzo di essa, perché essa assolutamente non si trova su questa via; dal momento che in vista del loro futuro uso, che deve essere assolutamente indipendente dall’esperienza, i concetti puri bisogna che presentino un ben diverso atto di nascita che quello dell’origine sperimentale. Questa tentata derivazione fisiologica, la quale, per parlare propriamente, non può nemmeno chiamarsi deduzione, poiché tocca solo una quaestionem facti, io la chiamerei illustrazione del possesso di una conoscenza pura. Ond’è chiaro che di questi concetti può darsi soltanto una deduzione trascendentale e puntò empirica, e che una deduzione empirica rispetto ai concetti puri a priori non è altro che un vano tentativo, nel quale possono sbizzarrirsi solo coloro che non abbiano compreso nulla della natura affatto peculiare di siffatte conoscenze.
Sebbene tuttavia l’unico modo di una possibile deduzione della conoscenza pura a priori, — cioè quello per la via trascendentale, sia ormai convenuto, non se ne ricava perciò, che esso sia cosi inevitabilmente necessario. Noi abbiamo sopra seguita sino alle loro scaturigini e chiarita e determinata la validità oggettiva a priori dei concetti dello spazio e del tempo, mediante una deduzione trascendentale. Eppure la geometria procede diritta per la sua strada, servendosi di sole conoscenze a priori, senza bisogno di ottenere dalla filosofia un lasciapassare comprovante la pura e regolare provenienza dal proprio concetto fondamentale dello spazio. Se non che, è pure da considerare che l’uso del concetto, in questa scienza, concerne solamente il mondo sensibile esterno, del quale lo spazio è la forma pura della sua intuizione, in cui perciò ogni conoscenza geometrica, fondandosi nella intuizione a priori, ha evidenza immediata, e gli oggetti (per la forma) son già dati nell’intuizione, mediante la stessa conoscenza a priori. Al contrario, coi concetti puri dell’intelletto incomin cia l’improrogabile esigenza di ricercare non solo la loro deduzione trascendentale, ma altresì quella dello spazio; infatti, poiché essi parlano di oggetti, non mediante predicati dell’intuizione e della sensibilità, ma del puro pensiero a priori, si riferiscono in generale agli oggetti, senza tutte le condizioni della sensibilità; e, non essendo fondati sull’esperienza, non possono nemmeno mostrare nell’intuizione a priori nessun oggetto, sul quale fondino, avanti a ogni esperienza, la loro sintesi; e però non solamente fan sorgere dubbi circa il valore obbiettivo e il limite del loro uso, ma rendono ambiguo quel concetto dello spazio, per ciò che sono inclinati a servirsene al di là delle condizioni della intuizione sensibile; e perciò anche sopra era necessaria, di essi, una deduzione trascendentale. Il lettore deve dunque convincersi della imprescindibile necessità di tale deduzione trascendentale, prima che abbia dato anche un sol passo sul terreno della ragion pura; perché altrimenti procede come cieco e, dopo aver errato qua e là, deve tornare a quella ignoranza dalla quale si era partito. Ma deve anche intenderne bene fin da ora la irrimediabile difficoltà, perché non abbia poi a lamentarsi della oscurità, nella quale è profondamente avvolta la cosa stessa, o non sia troppo presto scoraggiato dagli ostacoli da superare; poiché qui si tratta o di abbandonare del tutto ogni pretesa a vedute della ragion pura, che sono il campo prediletto, quello cioè che oltrepassa i confini di ogni possibile esperienza; o di condurre a termine questa ricerca critica. Più sopra, con piccola fatica, abbiamo potuto rendere intelligibile, pei concetti di spazio e di tempo, come essi, in quanto conoscenze a priori, debbano nondimeno riferirsi necessariamente ad oggetti, e rendere possibile una conoscenza sintetica di essi indipendentemente da ogni esperienza. Giacché, non potendo un oggetto apparirci, cioè essere oggetto dell’intuizione sensibile, se non per mezzo di tali forme pure della sensibilità, lo spazio e il tempo sono intuizioni pure che contengono a priori la condizione della possibilità degli oggetti come fenomeni; e la sintesi in essi ha validità oggettiva. Le categorie dell’intelletto al contrario non ci rappresentano punto le condizioni a cui gli oggetti ci sono dati nell’intuizione; e perciò possono bene apparirci oggetti, senza che si debbano necessariamente riferire a funzioni dell’intelletto, e questo, pertanto, contenga le condizioni di essi a priori. Sorge quindi a questo punto una difficoltà, che non incontrammo nel campo della sensibilità; come, cioè, le condizioni soggetti ve del pensare abbiano validità oggettiva, vale a dire ci dieno le condizioni della possibilità d’ogni conoscenza degli oggetti; perché anche senza funzioni dell’intelletto, possono benissimo esserci dati fenomeni nella intuizione. Prendo, per es., il concetto di causa, che significa una particolare maniera di sintesi, in cui a qualche cosa (A), secondo una regola, viene associata qualche altra cosa affatto diversa (B). A priori non è chiaro perché dei fenomeni debbano contenere qualche cosa di tal genere (infatti, esperienze in prova non se ne possono addurre, poiché si deve poter mostrare a priori la validità oggettiva di questo concetto); e a priori, quindi, si può dubitare se un concetto simile non sia alcunché di assolutamente vuoto, e non colga mai tra i fenomeni un oggetto. Che gli oggetti dell’intuizione sensibile debbano infatti essere conformi alle condizioni formali della sensibilità che si trovano a priori nello spirito, è chiaro, perché non potrebbero altrimenti essere oggetti per noi; ma non è altrettanto facile intendere che, inoltre, debbano essere conformi alle condizioni, di cui l’intelletto ha bisogno, per l’unità sintetica del pensiero. Perocché potrebbero in ogni caso darsi fenomeni così fatti, che l’intelletto non li trovasse punto conformi alle condizioni della sua unità, e che tutto si trovasse in tale stato di confusione che, ad es., nella serie dei fenomeni non si presentasse nulla, che potesse darci una regola della sintesi, e corrispondesse perciò al concetto di causa e di effetto; talché questo concetto sarebbe affatto vuoto, nullo e senza significato. I fenomeni non cesserebbero di presentare oggetti alla nostra intuizione, perché l’intuizione non ha in nessun modo bisogno delle funzioni del pensiero.
Che se altri pensasse di trarsi dall’imbarazzo di queste ricerche, dicendo: l’esperienza offre incessantemente esempi di una tal regolarità dei fenomeni, da dar sufficiente appiglio a ricavarne il concetto di causa, e a provare così ad un tempo la validità oggettiva d’un tal concetto; egli non si accorgerebbe che, in questa maniera, non è possibile che sorga mai il concetto di causa, ma che esso o deve essere fondato del tutto a priori nell’intelletto, oppure deve essere abbandonato come una semplice chimera. Giacché questo concetto richiede addirittura che qualche cosa (A) sia di tal guisa che un’altra (B) ne segua necessariamente e secondo una regola assolutamen-te universale. I fenomeni ci danno, sì, casi, da cui è possibile trarre una regola secondo la quale qualche cosa suole accadere, ma non possono mai assicurarci che il conseguente sia necessario; quindi alla sintesi di causa e di effetto conviene una dignità, che non si può asserire empiricamente, cioè che l’effetto non solo segua alla causa, ma sia posto da essa, e ne derivi. La rigorosa universalità della regola, non è punto una proprietà delle regole empiriche, le quali per induzione non possono raggiungere mai niente più che una universalità relativa, cioè una diffusa applicabilità. Ora, si altererebbe del tutto l’uso dei concetti puri dell’intelletto, se questi si volessero trattare né più né meno che come prodotti empirici.
§ 14. Passaggio alla deduzione trascendentale delle categorìe
Vi sono soltanto due casi possibili, nei quali la rappresentazione1 sintetica e i suoi oggetti possono incontrarsi e riferirsi l’uno all’altro in una maniera necessaria, e quasi convenire: o che l’oggetto renda possibile la rappresentazione, o che questa l’oggetto. Se si ha il primo caso, il rapporto è solamente empirico, e là rappresentazione non è mai possibile a priori. E questo è il caso dei fenomeni rispetto a ciò che in essi appartiene alla sensazione. Ma se si ha il secondo, dato che la rappresentazione in se stessa (giacché qui non si parla della sua causalità mediante il volere) non produce l’oggetto suo quanto all’esistenza, essa rappresentazione è tuttavia determinante a priori rispetto all’oggetto se solamente per mezzo di essa è possibile conoscere alcunché come oggetto. Ma ci sono due condizioni, in cui soltanto è possibile la conoscenza d’un oggetto: prima ‘l’intuizione, per la quale l’oggetto è dato, ma solo come fenomeno, e in secondo luogo il concetto, ond’è pensato un oggetto corrispondente a questa intuizione. Ed è chiaro da ciò che precede, che la prima condizione, cioè quella per la quale gli oggetti possono essere intuiti, sta nello spirito a priori, a fondamento di essi oggetti. Con questa condizione formale della sensibilità s’accordano dunque necessariamente tutti i fenomeni, poiché solo per essa appariscono, cioè possono essere intuiti empiricamente, e dati. Ora si tratta di sapere, se non precedano anche concetti a priori, come condizioni in cui solamente sia possibile che qualcosa, sebbene non intuito, venga tuttavia pensato come oggetto in generale; giacché allora ogni conoscenza empirica degli oggetti sarebbe conforme necessariamente a questi concetti, non essendo possibile, senza presupporli, cosa alcuna, come oggetto dell’esperienza. Ma, ogni esperienza, oltre l’intuizione dei sensi, per cui qualcosa è dato, racchiude anche il concetto di un oggetto che è dato o apparisce nell’intuizione; quindi a base d’ogni conoscenza sperimentale, ci saranno concetti di oggetti in generale, come condizioni a priori; e, per conseguenza, il valore oggettivo delle categorie, come concetti a priori, riposerà sul fatto che solo per esse è possibile l’esperienza (per la forma del pensiero). Perché allora esse si riferiscono ad oggetti dell’esperienza in modo necessario e a priori, poiché solo per mezzo di esse in generale un oggetto dell’esperienza può essere pensato.
La deduzione trascendentale di tutti i concetti a priori ha dunque un principio, al quale deve essere indirizzata tutta la ricerca, cioè questo: che essi debbono essere riconosciuti come condizioni a priori della possibilità dell’esperienza (sia dell’intuizione, che si trova in essa, o del pensiero). Concetti che diano il fondamento oggettivo alla possibilità dell’esperienza, sono appunto perciò necessari. Ma lo svolgimento dell’esperienza, nella quale essi si incontrano, non è la loro deduzione (ma illustrazione), poiché altrimenti sarebbero di natura contingente. Senza questa originaria relazione coll’esperienza possibile, in cui si hanno tutti gli oggetti della conoscenza, la loro relazione con un qualsiasi oggetto non potrebbe mai esser compresa.
Il celebre Locke, in mancanza di questa considerazione, e incontrando nell’esperienza concetti puri dell’intelletto, derivò anche questi dall’esperienza; e procedette tuttavia con tanta inconseguenza, che si avventurò in tentativi di conoscenze, che oltrepassano di gran lunga ogni limite dell’esperienza. David Hume riconobbe che, per poter far ciò, è necessario che questi concetti abbiano la loro origine a priori. Ma, non potendosi spiegare assolutamente come fosse possibile che l’intelletto abbia a pensare concetti, non connessi per sé nell’intelletto, come connessi tuttavia necessariamente nel-l’oggetto, e non essendogli caduto in mente che l’intelletto, con questi concetti, fosse per avventura esso l’autore dell’esperienza, nella quale son dati i suoi oggetti, li derivò, costretto da necessità, dall’esperienza (cioè da una subbiettiva necessità derivante dalla frequente associazione dell’esperienza, necessità che viene alla fine falsamente tenuta per obbiettiva: e cioè dall’abitudine); ma in ciò si condusse molto coerentemente, poiché dichiarò impossibile oltrepassare coi concetti e coi princìpi fondamentali, cui essi dan luogo, i confini dell’esperienza. Ma la derivazione empirica, a cui entrambi ricorsero, non può conciliarsi con l’esistenza effettiva delle conoscenze scientifiche a priori, che noi pur possediamo, cioè della matematica pura e della fisica generale, e vien perciò confutata dal fatto. Il primo di questi due uomini illustri diede libero accesso alla fantasticheria, poiché la ragione, se ha dalla sua il diritto, non si lascia più tenere nei cancelli con vaghi consigli di moderazione; il secondo si abbandonò interamente allo scetticismo, poiché credette di avere scoperto che quella che prendiamo universalmente per ragione è una illusione della nostra attività conoscitiva. — II nostro pensiero, ora, è di fare il tentativo di vedere se si possa felicemente trarre la ragione umana da questi due scogli, e determinare i precisi suoi limiti, pur conservando aperto per lei tutto il campo della sua attività utile. Ma prima voglio ancora soltanto premetter e la definizione delle categorie. Esse sono concetti di un oggetto in generale, onde l’intuizione di esso è considerata come determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare. Così la funzione del giudizio categorico era quella del rapporto del soggetto col predicato: per es., tutti i corpi sono divisibili. Soltanto, rispetto al puro uso logico dell’intelletto, rimaneva indeterminato a quale dei due concetti sia da attribuirsi la funzione di soggetto e a quale quella di predicato, potendosi dire ugualmente: qualche divisibile è un corpo. Ma con la categoria di sostanza, se io vi sottopongo il concetto di un corpo, resta determinato che la sua intuizione empirica nell’esperienza debba esser considerata sempre come soggetto e non mai come semplice predicato; e così in tutte le altre categorie.