Fonte: C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino, 1973, pagg. 212-232
Mi accingo ora a discutere il problema dei rapporti fra psicologia analitica e visione del mondo, e lo farò appunto ponendomi nel punto di vista che sopra ho spiegato, cioè domandandomi per prima cosa: le conoscenze della psicologia analitica aggiungono qualche cosa di nuovo alla nostra visione del mondo oppure no? Per trattare con profitto questa questione dobbiamo anzitutto sapere che cosa sia la psicologia analitica. Io indico con questo nome un particolare indirizzo della psicologia, che si occupa principalmente dei cosiddetti fenomeni contrariamente alla psicologia fisiologica o sperimentale, che tende a risolvere i fenomeni complessi nei loro elementi. Chiamo “analitico” questo indirizzo della psicologia perché esso si è sviluppato dalla “psicoanalisi” di Freud. Freud ha identificato la psicoanalisi colla sua teoria della rimozione dei complessi sessuali, e cosí l’ha dottrinariamente fissata. Io evito quindi l’espressione “psicoanalisi”, quando discuto cose che non siano puramente tecniche.
La psicoanalisi di Freud consiste in una tecnica che ci permette di ricondurre alla coscienza i cosidetti contenuti repressi o “rimossi”, divenuti incoscienti. Questa tecnica è un metodo terapeutico destinato a curare e guarire le nevrosi.
Alla luce di questo metodo sembrerebbe che le nevrosi si verifichino perché tendenze o ricordi penosi, i cosidetti contenuti incompatibili, vengono rimossi dalla coscienza per una specie di risentimento morale dovuto ad influenze educative, e divengono incoscienti. Cosí considerata, l’attività psichica incosciente ci appare come un ricettacolo di tutti i contenuti sgraditi alla coscienza e di tutte le impressioni dimenticate. Ma d’altra parte non si può non voler vedere che i contenuti incompatibili provengono appunto da impulsi incoscienti, che dunque l’incosciente non è soltanto un ricettacolo, ma addirittura la matrice di quelle cose di cui la coscienza vorrebbe liberarsi. Possiamo andare ancora un passo avanti: l’incosciente crea anche contenuti nuovi. Tutto ciò che lo spirito umano creò è provenuto da contenuti che in ultima analisi erano germi incoscienti. Mentre Freud insistette particolarmente sul primo di questi due aspetti, io ho messo in rilievo il secondo, senza negare il primo. Sebbene non sia irrilevante il fatto che l’uomo fa il possibile per schivare ed evitare tutto ciò che è sgradevole e quindi dimentica volentieri ciò che non gli accomoda, mi pare tuttavia assai piú importante constatare quale è propriamente l’attività positiva dell’incosciente. Osservato da questo lato l’incosciente ci appare il complesso di tutti i contenuti psichici in statu nascendi. Questa indubbia funzione dell’incosciente è in sostanza solamente disturbata dai contenuti rimossi dalla coscienza, e questa perturbazione dell’attività naturale dell’incosciente è ben la sorgente essenziale delle cosiddette malattie psicogene. L’incosciente è forse meglio compreso se lo consideriamo come un organo dotato di una sua specifica energia produttiva. Se, a causa della rimozione, i suoi prodotti non vengono accolti nella coscienza, nasce una specie di stasi, una innaturale inibizione di una funzione opportuna, proprio come se la bile, prodotto naturale della funzione del fegato, trovasse impedito il deflusso nell’intestino. La bile passa nel sangue, e parimenti il contenuto rimosso si irradia in altre zone psichiche e fisiologiche. Nell’isteria sono disturbate principalmente le funzioni fisiologiche, nelle altre nevrosi, come le fobie, le ossessioni e le nevrosi coatte, sono disturbate soprattutto le funzioni psichiche, compresi i sogni. L’attività dei contenuti rimossi, rilevabile nei sintomi somatici dell’isteria e nei sintomi psichici di altre nevrosi (ed anche delle psicosi), è dimostrabile anche per i sogni. Il sogno è in sé una funzione normale, che può essere alterata dalla stasi tanto quanto altre funzioni. La teoria freudiana del sogno considera, e anzi spiega i sogni solo sotto questo aspetto, cioè come se non fossero altro che sintomi. È noto che la psicoanalisi tratta alla stessa maniera anche altri ben diversi campi dello spirito, quali le opere d’arte; ma l’opera d’arte, mi spiace dirlo, non è un sintomo, bensí una creazione genuina. Una produzione creativa non può essere intesa che per se stessa. Qualunque tentativo di concepirla come un malinteso patologico e di spiegarla come una nevrosi la riduce a una compassionevole curiosità.
Lo stesso vale per il sogno, creazione caratteristica dell’incosciente, che la rimozione può solo svisare e deformare. Spiegando il sogno come un mero sintomo di rimozione non si coglie certo nel segno.
Limitiamoci per un istante ai risultati della psicoanalisi di Freud. Secondo la teoria della psicoanalisi l’uomo è un essere istintivo, che urta per molti riguardi contro le barriere delle leggi, dei comandamenti morali e della propria saggezza, ed è perciò costretto a rimuovere in tutto o in parte alcuni istinti. Lo scopo del metodo è di addurre alla coscienza questi contenuti istintivi, e di sopprimere la loro rimozione mediante una correzione cosciente. Alla minaccia rappresentata dal loro scatenamento viene opposta la spiegazione che essi non siano altro che fantasie e desiderî infantili, i quali, ragionevolmente, possono soltanto venir repressi. Si ammette anche che essi possano essere “sublimati” – secondo l’espressione tecnica – intendendo con ciò una specie di deviazione in un’opportuna forma di adattamento. Ma chi crede che questa possa essere volontariamente ottenuta si sbaglia. Solo l’assoluta necessità può inibire efficacemente un istinto naturale. Dove non esiste questa inesorabile necessità la sublimazione non è che un’illusione, una rimozione nuova, e questa volta alquanto piú sottile.
C’è in questa teoria e in questa concezione dell’uomo qualcosa che giovi alla nostra visione del mondo? Io non lo credo. L’idea direttiva della psicologia interpretativa della psicoanalisi freudiana è il ben noto materialismo razionalista della fine del secolo scorso. Non ne vien fuori un’altra immagine del mondo e quindi neppure un altro orientamento dell’uomo rispetto al mondo. Ma non si può dimenticare che solo in pochissimi casi l’orientamento subisce l’influenza delle teorie. Assai piú efficace è la via che passa per il fattore sentimento. Ma io non capisco come una secca esposizione teorica possa toccare il sentimento. Vi potrei leggere una minuta statistica carceraria e voi vi addormentereste. Se però vi guidassi per una prigione o per un manicomio non vi addormentereste, e ne ricevereste una profonda impressione. Fu forse una dottrina quella che formò il Budda? No, fu la visione della vecchiaia della malattia e della morte, quella che gli bruciò nell’anima.
In realtà le concezioni in parte unilaterali, in parte errate della psicoanalisi freudiana non ci dicono nulla. Ma se gettiamo uno sguardo nella psicoanalisi di reali casi di nevrosi e vediamo quali devastazioni causano le cosidette rimozioni, quali distruzioni seguono alla non osservanza di istinti elementari, allora sí ne riceviamo, per dir poco, una impressione duratura. Non c’è forma della tragedia umana che non possa scaturire da questa lotta dell’io contro l’incosciente. Chi vede per la prima volta gli orrori di un carcere, di un manicomio o di un ospedale arricchisce notevolmente, per l’impressione che suscitano in lui queste cose, la propria visione del mondo. La medesima cosa gli succede gettando uno sguardo nell’abisso di sofferenza umana che si apre dietro una nevrosi. Quante volte ho udito esclamare: “Ma è spaventevole! Chi vi avrebbe pensato?” e cosí via. Non lo si può davvero negare, è una impressione poderosa quella che si riceve dell’attività dell’incosciente, quando si cerca di indagare colla debita profonda scrupolosità la struttura di una nevrosi. È anche un merito mostrare a qualcuno gli slums di Londra, e chi li ha visti ha visto di piú che chi non li ha visti. Ma non si tratta che di un urto violento, e la domanda: che cosa si deve fare? rimane ancora senza risposta.
La psicoanalisi ha tolto l’involucro che ricopriva fatti noti a poche persone, ed ha perfino fatto il tentativo di trarne partito. Ma quale atteggiamento ha essa nei loro riguardi? È un atteggiamento nuovo? È stata feconda, in altre parole, la grande impressione? Ha essa mutato l’immagine del mondo migliorando cosí la nostra visione del mondo? La visione del mondo della psicoanalisi è un materialismo razionalista, è la visione del mondo di una scienza naturale essenzialmente pratica. E noi sentiamo che questa visione è insufficiente. I tentativi di derivare una poesia di Goethe dal suo complesso materno, o di spiegare Napoleone come un caso di protesta virile, e san Francesco come un caso di rimozione sessuale, ci lasciano profondamente insoddisfatti. Sono tentativi insufficienti, che non rendono conto della significativa realtà delle cose. Dove vanno a finire la bellezza, la grandezza e la santità? Queste sono pure vivissime realtà, senza le quali la vita umana sarebbe estremamente ottusa. Dov’è la giusta risposta ai quesiti che ci sono posti da inauditi dolori e conflitti? In questa risposta dovrebbe almeno risuonar qualcosa che ci ricordi la grandezza della sofferenza. L’atteggiamento puramente razionalista, per quanto sia spesso opportuno, trascura il significato del dolore. Il dolore è messo da parte e dichiarato irrilevante. Fu un gran rumore per nulla. Molto ricade in questa categoria, ma non tutto.
L’errore sta nel fatto che, come abbiamo detto, la cosiddetta psicoanalisi ha un concetto scientifico, è vero, ma puramente razionalistico dell’incosciente. Parlando di istinti, si crede di riferirsi a cose note. In realtà si parla di cose ignote. In realtà sappiamo soltanto che dalla buia sfera della psiche ci giungono influssi che debbono venir comunque accolti nella coscienza, per evitare devastatrici perturbazioni di altre funzioni. È assolutamente impossibile dire senz’altro di che natura sono questi influssi, se essi sono dovuti alla sessualità, alla volontà di potenza o ad altri istinti. Sono influssi ambigui, o addirittura di significato molteplice, come l’incosciente stesso. Ho già spiegato prima che l’incosciente è bensí il ricettacolo di tutti i contenuti dimenticati, passati o rimossi, ma è anche la sfera in cui hanno luogo tutti i processi subliminali, come le percezioni sensoriali troppo deboli per raggiunger la coscienza, e finalmente è anche la matrice da cui cresce il futuro psichico. Come sappiamo che si può reprimere un desiderio incomodo e costringerne in tal modo l’energia ad immischiarsi in altre funzioni, cosí sappiamo pure che c’è chi non può acquistar coscienza di una nuova idea che gli viene in mente e gli è assai lontana, la cui energia, per conseguenza, fluisce in altre funzioni perturbandole. Ho visto molti casi in cui abnormi fantasie sessuali cessarono di colpo e completamente nell’istante in cui un nuovo pensiero o contenuto divenne cosciente, o una emicrania scomparve improvvisamente quando divenne cosciente una poesia incosciente. Come la sessualità si può esprimere impropriamente in fantasie, cosí anche una fantasia creatrice si può esprimere impropriamente in sessualità. En étymologie n’importe quoi peut désigner n’importe quoi, disse Voltaire; e la stessa cosa bisogna dire dell’incosciente. In ogni caso non sappiamo mai in antecedenza di che cosa si tratta. Per ciò che riguarda l’incosciente abbiamo soltanto la facoltà di saper le cose dopo, ed inoltre è a priori impossibile saper qualcosa su quanto avviene nell’incosciente. Ogni conclusione a questo riguardo è un confessato come se.
In questa situazione l’incosciente ci appare come una grande X, da cui promanano considerevoli influssi, l’unica cosa su cui non ci sia dubbio. Uno sguardo alle religioni del passato ci mostra l’importanza storica di questi influssi. Uno sguardo alle sofferenze dell’uomo d’oggi ci mostra la stessa cosa. Solo che oggi noi ci esprimiamo un po’ diversamente. Cinquecent’anni fa si diceva: è posseduta dal diavolo; oggi si dice: è una isterica; una volta era stregoneria, oggi è una nevrosi gastrica. I fatti sono gli stessi, ma l’antica spiegazione, psicologicamente, era quasi esatta. Adesso, per indicare i sintomi, abbiamo dei termini razionalistici che a dire il vero sono privi di contenuto. Quando infatti io dico che un tale è posseduto da uno spirito maligno, indico con ciò il fatto che il posseduto non è legittimamente malato, ma soffre di un influsso spirituale invisibile di cui non può rendersi padrone in nessun modo. Questo ente invisibile è un cosidetto complesso autonomo, un contenuto incosciente sottratto all’impero della volontà cosciente. Analizzando la psicologia di una nevrosi si scopre infatti un cosiddetto complesso, che non si comporta come un contenuto cosciente andando o venendo come noi comandiamo, ma segue leggi proprie, è in altre parole indipendente, autonomo, come dice l’espressione tecnica. Esso si comporta proprio come un coboldo che non si lascia dominare. E se l’analisi riesce a rendere cosciente il complesso il malato dice forse con sollievo: ah! ecco quello che mi disturbava! e apparentemente abbiamo guadagnato qualche cosa, perché i sintomi scompaiono: il complesso, come si suol dire, è sciolto. Possiamo esclamare con Goethe: “Wir haben ja aufgeklärt!”, or tutto è chiaro! Ma con Goethe dobbiamo continuare: “Und dennoch spukt’s in Tegel!”, eppure a Tegel ci sono gli spettri! Soltanto adesso si rivela la vera situazione; noi ci accorgiamo che questo complesso non avrebbe dovuto esistere, se la nostra natura non gli avesse conferito una segreta forza propulsiva. Voglio spiegarmi con un breve esempio: un paziente soffre di sintomi nervosi gastrici, consistenti in contrazioni dolorose, come se avesse fame. L’analisi rivela una passione infantile per la madre, un cosiddetto complesso materno. Appena il malato ne prende coscienza i sintomi scompaiono, ma rimane al loro posto uno stato nostalgico a calmare il quale non vale la constatazione che esso non è altro che un complesso materno infantile. Quella che prima era fame quasi fisica e dolore fisico, ora è fame psichica e dolore psichico. Si aspira a qualche cosa e si sa che a torto ci si riferiva alla madre. Il fatto di un’aspirazione ancora inappagabile rimane, e risolvere questo problema è assai piú difficile che ricondurre la nevrosi al complesso materno. Questa vaga bramosia è un’esigenza continua, un vuoto tormentoso, attivo, che può esser dimenticato solo per qualche tempo, ma non può mai esser vinto colla forza della volontà. Ricompare continuamente. Non si sa da che proviene, forse non si sa nemmeno che cosa si desidera. Si possono sospettare molte cose, ma certo è soltanto che al di là del complesso materno c’è qualcosa di incosciente che manifesta quest’esigenza ed eleva continuamente la sua voce, indipendentemente dalla nostra coscienza inattaccabile dalla nostra critica. Questo qualcosa è ciò che io chiamo complesso autonomo. Da questa fonte scaturisce la forza istintiva che originariamente nutrí l’anelito infantile verso la madre e poi causò la nevrosi perché la coscienza adulta dovette ricusare l’anelito infantile e reprimerlo come incompatibile.
Tutti i complessi infantili risalgono in ultima analisi a contenuti autonomi dell’incosciente. La mente dei primitivi ha personificato questi contenuti, che sentiva estranei e incomprensibili, dando loro forma di spiriti, di demoni o di dèi, ed ha tentato di assolvere alle loro esigenze con riti sacri e magici. Accortasi, e giustamente, che questa fame o sete non può esser saziata né da cibo né da bevanda, né dal ritorno nel grembo materno, la mente del primitivo ha creato immagini di esseri invisibili gelosi ed esigenti, piú autorevoli, piú forti e piú pericolosi che l’uomo, cittadini di un mondo invisibile, ma fusi tanto intimamente col mondo visibile, da abitare perfino nelle pentole di cucina. Spiriti e magia sono, per il primitivo le cause delle malattie. I contenuti autonomi si sono in lui proiettati in queste figure soprannaturali. Il nostro mondo invece è libero da demoni, salvo alcuni residui significativi. Ma i contenuti autonomi e le loro esigenze sono rimasti. Potrebbero esprimersi in parte nelle religioni, ma quanto piú le religioni si razionalizzano e si diluiscono – sorte quasi inevitabile – tanto piú confuse e misteriose divengono le vie per le quali i contenuti dell’incosciente pur ci raggiungono. Una delle vie piú comuni, e a tutta prima non lo si sospetterebbe, è la nevrosi. Il pubblico crede di solito che le nevrosi siano bazzecole, quantités négligeables della medicina, ma ha torto come abbiamo visto. Ché dietro la nevrosi si celano quei potenti influssi psichici che stanno a base del nostro atteggiamento spirituale e delle nostre piú autorevoli idee direttive. Il materialismo razionalistico, atteggiamento mentale in apparenza non sospetto, è un movimento psicologico opposto al misticismo. Questo è il recondito antagonista che deve essere combattuto. Materialismo e misticismo non sono psicologicamente, che una coppia di contrari, proprio come l’ateismo e il teismo. Sono fratelli nemici, due metodi differenti per venire comunque a capo dei dominanti influssi incoscienti, l’uno negando, l’altro affermando.
Il contributo piú importante che la psicologia analitica ha potuto recare alla nostra visione del mondo è dunque, secondo me, la nozione che esistono contenuti incoscienti i quali pongono irrecusabili esigenze o irraggiano influssi con cui la coscienza, volente o nolente, deve fare i conti.
L’esposizione che io ho fatto finora sarebbe certo insufficiente, se io lasciassi in questa forma indeterminata ciò che ho chiamato contenuto autonomo dell’incosciente, e non tentassi almeno di descrivere ciò che la nostra psicologia ha empiricamente scoperto in questi contenuti.
Se, come ammette la psicoanalisi, ci si potesse definitivamente accontentare dicendo che l’originaria dipendenza infantile dalla madre è la causa di quella vaga bramosia di cui sopra ho parlato, questa nozione dovrebbe costituire anche una soluzione. E ci sono infatti dipendenze infantili che scompaiono davvero quando si acquista piena coscienza della loro natura. Ma non bisogna credere che avvenga cosí in tutti i casi. Residua sempre qualche cosa, talora cosí poco apparentemente, che il caso sembra praticamente risolto, ma talora il residuo è cosí abbondante da lasciare insoddisfatti sia il medico sia il paziente, e spesso sembra che non si sia ottenuto proprio nulla. D’altronde molti malati curati da me, benché conoscessero minutamente il complesso che causava i loro disturbi, non ne avevano tratto alcun reale vantaggio.
Una spiegazione causale può dare una relativa soddisfazione scientifica, ma psicologicamente non soddisfa, poiché non rivela lo scopo della forza istintiva a cui è dovuto il disturbo (il significato della bramosia, per esempio), e tanto meno insegna che cosa si deve fare per rimediarvi. Quand’anche io sappia che un’epidemia di tifo è dovuta all’acqua infetta, non per questo ho eliminato l’inquinamento delle sorgenti. Una risposta adeguata è data soltanto quando si sa che cosa sia e dove tenda quella forza ignota che mantiene viva nell’età adulta la dipendenza infantile.
Se la mente umana alla nascita fosse una tabula rasa, questi problemi non esisterebbero, perché tutto ciò che la mente contiene sarebbe stato acquisito, o vi sarebbe stato innestato. Ma nell’anima umana ci son molte cose che non sono state acquisite, perché la mente umana non nasce come tabula rasa, né ogni uomo ha un cervello del tutto nuovo ed a lui peculiare. Il cervello con cui l’uomo nasce è il risultato dell’evoluzione di un’infinita serie di antenati, si costituisce compiutamente differenziato di ogni embrione, e dà immancabilmente, quando entra in funzione, risultati già prodottisi infinite volte nella serie degli antenati. L’intera struttura anatomica dell’uomo è un sistema ereditario, identico alla costituzione ancestrale, che immancabilmente funzionerà nella stessa maniera di prima. È quindi minima la possibilità che si produca qualcosa di nuovo, sostanzialmente differente da quanto è stato prodotto in antico. Tutti quei fattori, dunque, che furono essenziali per i nostri avi prossimi e remoti, saranno essenziali anche per noi, perché corrispondono al sistema organico ereditario. Essi sono necessità, che si paleseranno come bisogni.
Non temete che io vi parli di idee ataviche. Me ne guardo bene. I contenuti autonomi dell’incosciente (o dominanti dell’incosciente, come io li ho anche chiamati), non sono idee ereditate, ma possibilità ereditate, o meglio sono necessità di generare ancora quelle idee che le dominanti dell’incosciente hanno sempre espresso. Certamente ogni regione della terra ed ogni epoca ha il suo particolare linguaggio, che può variare infinitamente. Ma non importa che nella mitologia l’eroe vinca ora un drago, ora un pesce, ora un altro mostro; il motivo fondamentale resta il medesimo, ed è questo il patrimonio comune dell’umanità, non le transitorie formulazioni delle diverse regioni e delle varie età.
L’uomo nasce dunque con una disposizione mentale complicata, ben diversa da una tabula rasa. L’eredità mentale pone limiti precisi anche alla piú ardita fantasia, ed attraverso il velo della piú sfrenata fantasticheria traspaiono quelle dominanti che fin dalla piú remota antichità furono inerenti allo spirito umano. Ci stupisce scoprire in un alienato fantasie quasi identiche a quelle che possiamo ritrovare nei primitivi. Ma dovremmo stupirci se cosí non fosse.
Alla sfera della massa ereditaria psichica ho dato il nome di incosciente collettivo. I contenuti della nostra coscienza sono tutti individualmente acquisiti. Ora, se la psiche umana fosse costituita esclusivamente dalla coscienza, non ci sarebbe nulla di psichico che non fosse sorto nel corso della vita individuale. In questo caso sarebbe vano cercare qualche condizione o qualche influsso dietro un semplice complesso paterno o materno. Riconducendo il complesso al padre o alla madre avremmo detto l’ultima parola, perché queste sono le figure che prime hanno agito sulla nostra psiche cosciente. Ma in realtà i contenuti della nostra coscienza non sono dovuti soltanto all’azione dell’ambiente individuale, sono invece anche influenzati e ordinati dalla massa psichica ereditaria, dall’incosciente collettivo. È certo, per esempio, che l’immagine della madre individuale è assai significativa, ma essa è tale perché è fusa con una disposizione incosciente, cioè con un’immagine congenita che deve la sua esistenza al fatto che madre e bambino, da tempo immemorabile, stettero in un rapporto simbiotico. Là dove, in qualunque senso, manca la madre individuale, si avverte una perdita, e l’immagine materna collettiva fa sentire le sue esigenze. Un istinto, per cosí dire, non riesce a coglier nel segno. Ne nascono assai spesso disturbi nevrotici o almeno singolarità del carattere. Se non esistesse l’incosciente collettivo si potrebbe ottenere tutto coll’educazione, e senza danno storpiar l’uomo a macchina psichica o allevarlo al culto di un ideale. Ma a tutti questi sforzi sono tracciati stretti limiti, perché ci sono dominanti dell’incosciente che elevano invincibili richieste di esaudimento.
Se dunque, nel caso del paziente colla nevrosi gastrica, mi si chiede di definire esattamente che cosa sia quell’oscuro fattore incosciente che trascendendo il complesso materno personale alimenta una bramosia altrettanto indistinta quanto tormentosa, debbo rispondere: è l’immagine collettiva della madre, non di questa madre personale, ma della madre in genere.
Ma perché, mi si domanderà, quest’immagine collettiva deve suscitare una simile bramosia? Rispondere a questa domanda non è facile. Anzi, se potessimo rappresentarci direttamente che cos’è e che cosa significa l’immagine collettiva (che io ho anche chiamato archetipo), sarebbe assai semplice capirne l’azione.
Mi spiegherò meglio nel modo che segue:
La relazione da madre a bambino è la piú profonda e la piú netta che noi conosciamo; non è forse il bambino, per qualche tempo, parte del corpo materno? Poi egli diventa, per lunghi anni, un elemento dell’atmosfera psichica della madre, e in questa guisa tutto ciò che nel bambino è originario si fonde indissolubilmente, per cosí dire, coll’immagine materna. Quanto io dico non è vero soltanto per il caso singolo, ma è ancor piú vero storicamente. È l’esperienza vissuta dalla serie degli antenati, è una verità organica come il rapporto fra i sessi. Anche l’archetipo, immagine materna collettiva ereditaria, è dotato di una forza attrattiva straordinariamente intensa, che spinge il bambino a aggrapparsi istintivamente a sua madre. Coll’andar degli anni l’uomo si sottrae naturalmente alla madre (non altrettanto naturalmente all’archetipo), purché egli non sia piú in uno stato di primitività quasi animalesca, ma abbia già acquistato una certa consapevolezza e quindi una certa civiltà. Se egli è puramente istintivo, la sua vita scorre senza volontà, perché volontà presuppone sempre coscienza; scorre secondo leggi incoscienti e non si scosta mai dall’archetipo. Ma se esiste una certa consapevolezza il contenuto cosciente è valutato piú che l’incosciente, e ne nasce l’illusione di aver cessato, separandosi dalla madre, di essere il figlio di questa madre individuale. La coscienza non conosce che contenuti individualmente acquisiti, non conosce, per conseguenza, che la madre individuale, e non sa che questa è in pari tempo la portatrice dell’archetipo, e rappresenta, per cosí dire, la madre eterna. Ma il distacco dalla madre è sufficiente solo se è in pari tempo un distacco dall’archetipo. Lo stesso dicasi per il distacco dal padre.
Il sorgere della coscienza e quindi di una relativa libertà di volere permise naturalmente lo scostamento dall’archetipo e quindi dall’istinto. Avvenuto lo scostamento, il cosciente si dissocia dall’incosciente, e cosí comincia la percepibile e di solito assai sgradevole attività dell’incosciente, in forma di un inconscio legame interno che si manifesta solo sintomaticamente, cioè indirettamente. Sorgono allora situazioni in cui sembra che non sia ancora avvenuto il distacco dalla madre. La mente dei primitivi, pur non avendo capito questo dilemma, lo ha chiaramente sentito, e perciò ha creato riti importantissimi destinati a segnare il passaggio dall’infanzia all’età adulta, coll’inequivocabile scopo di operare magicamente il distacco dai genitori, riti che sarebbero del tutto superflui se la relazione coi genitori non fosse parimenti sentita come magica. Magiche sono tutte quelle cose dove sono in gioco influssi incoscienti. Ma questi riti hanno l’intento di operare non solo il distacco dai genitori, ma anche la transizione nell’età adulta. Perché ciò avvenga occorre che non resti una bramosia rivolta indietro verso la fanciullezza, cioè che sia coperta l’esigenza dell’archetipo offeso, e questo si ottiene contrapponendo all’intimo rapporto coi genitori un altro rapporto, quello col clan o colla tribú. Servono a questo scopo alcuni segni che vengono impressi sul corpo, quali la circoncisione ed altre lesioni che lasciano cicatrici, e poi l’iniziazione mistica che il giovane riceve all’atto della consacrazione. Talora la consacrazione assume forme assai crudeli.
Il primitivo ritiene necessario, per ragioni di cui non è cosciente, di soddisfare in questa maniera alle esigenze dell’archetipo. Non gli basta la semplice separazione dei genitori, ma gli occorre una violenta cerimonia che sembra un sacrificio a quelle potenze che potrebbero trattenere il giovane. Da ciò si riconosce la potenza dell’archetipo, che costringe il primitivo ad agire contro la natura per non caderle in preda. È questo l’inizio di ogni civiltà, l’inevitabile conseguenza della consapevolezza e della possibilità che ne deriva di deviare dalla legge incosciente.
Sono cose da tempo divenute estranee al nostro mondo, ma non per questo la natura ha in noi perduto nulla della sua potenza. Noi abbiamo soltanto imparato a sottovalutarla. Ma siamo in imbarazzo quando ci chiediamo quale sia la nostra maniera di opporci all’azione dei contenuti incoscienti. Per noi non si può piú trattare di riti primitivi: sarebbe un regresso artificioso ed inoltre inefficace. Siamo già troppo critici e troppo psicologi. Se voi mi poneste questa questione sarei in imbarazzo tanto quanto voi. Posso solo dire che da anni osservo quali vie seguono molti dei miei pazienti per appagare l’esigenza dei contenuti incoscienti. Oltrepasserei di molto i limiti di questo saggio, se volessi riferire qui i risultati di queste osservazioni, e vi debbo rinviare, a questo riguardo, alla letteratura della specialità, dove la questione è minutamente discussa. Mi accontenterò di portarvi a riconoscere, se vi riuscirò, che nella nostra anima incosciente sono attive quelle stesse forze che l’uomo negli antichi tempi proiettava nello spazio e qui onorava con sacrifici.
Servendoci di questa nozione potremmo riuscire a dimostrare che tutte le molteplici usanze e convinzioni religiose che tanta importanza hanno avuto nella storia dell’umanità non sono riconducibili ad invenzioni arbitrarie o ad opinioni di singoli, ma sono piuttosto debitrici della loro origine all’esistenza di potenti forze incoscienti che non possono venir trascurate senza turbare l’equilibrio psichico. Quanto vi ho spiegato servendomi dell’esempio del complesso materno non è che un caso fra i molti. L’archetipo materno è un caso isolato, al quale si potrebbe facilmente aggiungere una serie di altri archetipi. Questa molteplicità delle dominanti incoscienti spiega il polimorfismo delle idee religiose. Tutti questi fattori sono ancor sempre attivi nella nostra anima; solo le loro espressioni e le loro valutazioni sono superate. Il fatto che noi adesso possiamo intenderli come grandezze psichiche è una nuova formulazione, una nuova espressione, che forse renderà anche possibile scoprire vie per le quali possa venir stabilita una nuova relazione con loro. Ritengo che questa possibilità sia cosa assai importante, perché l’incosciente collettivo non è affatto una specie di angolo oscuro, ma è il deposito, che tutto domina, dell’esperienza atavica di innumerevoli milioni d’anni, l’eco della preistoria, a cui questo secolo non apporta che un piccolissimo contributo di variazioni e di differenziazione. L’incosciente collettivo, essendo in ultima analisi un deposito storico che si esprime nella struttura del cervello e del simpatico, ha nel suo complesso il significato di una specie di immagine del mondo senza tempo, eterna, in certo qual modo, contrapposta alla momentanea immagine del mondo della nostra coscienza. Ciò significa, in altri termini, né piú né meno che un altro mondo, un mondo speculare, se cosí volete. Ma, a differenza da una mera immagine speculare, l’immagine del mondo inconscia ha un suo particolare vigore, indipendente dalla coscienza, grazie al quale può esplicare potenti azioni psichiche, azioni che non appaiono ampiamente alla superficie del mondo, ma influiscono potentemente su di noi dall’interno, dal buio, invisibili a chiunque non sottoponga l’immagine momentanea del mondo a critica sufficiente e quindi rimanga celato anche a se stesso. Il mondo non ha solo una faccia esteriore, ma anche una faccia interiore, non è solo visibile fuori di noi, ma opera prepotentemente su di noi, in un presente senza tempo dai piú profondi e apparentemente piú soggettivi fondi dell’anima; ecco una nozione che, pur essendo un’antica saggezza, merita, in questa forma, di esser valutata come un fattore formativo della nostra visione del mondo.
La psicologia analitica non è una visione del mondo, ma una scienza, e come tale fornisce i materiali costruttivi o gli strumenti con cui ciascuno può costruire, abbattere o anche migliorare la propria visione del mondo. Ci sono oggi molti per i quali la psicologia analitica è una visione del mondo. Io vorrei che cosí fosse, perché allora sarei dispensato dalla fatica di indagare e di dubitare e potrei inoltre dirvi in modo chiaro e semplice qual è la via che conduce in paradiso. Ma purtroppo non siamo ancora a tal punto. Io mi limito a saggiare sperimentalmente la visione del mondo, tentando di capire quali siano il significato e la portata dei nuovi eventi. E questo sperimentare è in un certo senso una via, perché tutto sommato anche la nostra stessa esistenza è un esperimento della natura, un tentativo con una nuova combinazione. Una scienza non è mai una visione del mondo, ma solo lo strumento per crearla. Ognuno prenderà o non prenderà in mano questo strumento, secondo la visione del mondo che già possiede. Nessuno infatti è senza visione del mondo: tutt’al piú avrà quella che gli fu imposta dall’educazione e dall’ambiente. Se questa visione del mondo, per esempio, gli dice, colle parole di Goethe, che la personalità è il supremo bene dell’uomo, egli darà di piglio senza esitare alla scienza ed ai suoi risultati, in cui vedrà lo strumento per costruire una visione del mondo e quindi se stesso. Se invece la sua visuale ereditaria gli dirà che la scienza non è strumento, ma fine a se stessa, egli seguirà la parola d’ordine che da circa 150 anni è valida, cioè praticamente decisiva. Alcuni, invero, si sono disperatamente difesi contro questa idea, perché la loro idea di perfezione culminava nella compiutezza della personalità umana e non nella differenziazione dei mezzi tecnici, che conduce inevitabilmente a una differenziazione estremamente unilaterale di un impulso, dell’impulso a conoscere. Se la scienza è fine a se stessa l’uomo ha la sua ragion d’essere come intelletto. Se l’arte è fine a se stessa, l’attitudine figurativa è l’unico valore dell’uomo, e l’intelletto va a finire in soffitta. Se il guadagnar danaro è fine a se stesso, scienza ed arte possono tranquillamente far fagotto. Nessuno può negare che la coscienza moderna è spezzettata, quasi senza speranza, in questi “fini a se stessi”. Perciò gli uomini vengono coltivati solo come qualità singole, e diventano strumenti.
Negli ultimi 150 anni abbiamo avuto numerose visioni del mondo, prova questa che la Weltanschauung è merce screditata, perché quanto piú una malattia è difficile da guarire, canto piú numerosi sono i rimedi proposti, tanto peggiore è la fama dei singoli rimedi. Sembra che le “visioni del mondo” siano passate di moda.
È difficile pensare che quest’evoluzione sia un puro caso, una deplorevole ed insensata aberrazione, perché ciò che di per sé è eccellente e adeguato non suole scomparire dalla faccia del mondo in modo tanto penoso e sospetto. Bisogna che ci sia qualcosa di inutile o di riprovevole. Dobbiamo quindi porci la questione: dov’è l’errore delle nostre visioni del mondo?
A me pare che l’errore fatale dell’attuale visione del mondo consista in questo, che essa pretende di essere una verità obbiettivamente valida, e in ultima analisi perfino una specie di evidenza scientifica, il che conduce, per esempio, all’insopportabile conseguenza che lo stesso buon Dio deve aiutare i Tedeschi, i Francesi, gli Inglesi, i Turchi, i pagani; insomma, tutti contro tutti. La coscienza moderna, nella sua piú ampia concezione del divenire mondiale, si è ritratta con orrore da simili mostruosità, ed ha cominciato a cimentarsi con surrogati filosofici. Ma anche questi pretesero di essere verità obbiettivamente valide, e furono screditati; e cosí abbiamo finito per arrivare allo spezzettamento differenziato, colle sue poco raccomandabili conseguenze.
L’errore fondamentale di ogni visione del mondo è la sua singolare tendenza ad essere considerata essa stessa come la verità delle cose, mentre in realtà essa non è che il nome che noi diamo alle cose. Forse che noi, in scienza, litighiamo per decidere se il nome del pianeta Nettuno corrisponde all’essenza di questo astro e sia quindi il suo solo “giusto” nome? Nemmeno per idea, e questa è la ragione per cui la scienza è piú progredita: essa conosce soltanto ipotesi di lavoro. Solo lo spirito primitivo crede al “vero nome”. Il Rumpelstilzchen della favola andava in tanti pezzi quando si nominava il suo vero nome. Il capo tribú cela il suo vero nome ed assume, per l’uso giornaliero, un nome esoterico, affinché nessuno possa stregarlo conoscendo il suo vero nome. Nelle tombe dei faraoni egiziani venivano scritti i veri nomi degli dèi, affinché i faraoni defunti potessero aver gli dèi in loro potere mediante la conoscenza del loro vero nome. Per il cabalista il possesso del vero nome di Dio ha il significato di una potenza magica. Insomma: per lo spirito del primitivo il nome costituisce la cosa stessa. “Ciò che egli dice diviene”, tale è l’antica massima di Ptah. Le visioni del mondo soffrono di questo residuo di primitività incosciente. Come all’astronomia è ancora ignoto che gli abitanti di Marte abbiano reclamato in terra per falsa denominazione del loro pianeta, cosí possiamo tranquillamente ammettere che il mondo non si curi affatto di ciò che di lui pensiamo. Ma non per questo occorre che noi cessiamo di pensare al mondo. E difatti noi non cessiamo di pensarci, anzi, la scienza continua a vivere come figlia ed erede di vecchie e decadute visioni del mondo. Ma chi ci ha scapitato in questo cambio di mano è l’uomo. Nella visione del mondo di antico stile egli aveva messo ingenuamente il suo spirito al posto delle cose, e gli era lecito considerare il suo viso come la faccia del mondo, vedere in sé un’immagine di Dio; lusso che non era poi pagato troppo caro con alcune pene dell’inferno. Nella scienza, invece, l’uomo non pensa a sé ma solo al mondo, all’oggetto: si è tolto di mezzo ed ha sacrificato la propria personalità allo spirito obbiettivo. Perciò lo spirito scientifico è anche moralmente superiore alle visioni del mondo di vecchio stile.
Ma noi cominciamo a sentire le conseguenze di questo immiserimento della personalità umana. In tutti i luoghi si leva la richiesta di una visione del mondo, si vuole che la vita ed il mondo abbiano un senso. Sono numerosi anche nel nostro tempo i tentativi di andare a ritroso e di professare visioni del mondo di antico stile quali la teosofia (o meglio: antroposofia). Abbiamo bisogno, noi e piú ancora la nuova generazione, di una visione del mondo. Ma se non vogliamo ricadere in stadi evolutivi superati, una nuova visione del mondo deve rinunciare alla superstizione della propria validità obbiettiva, deve saper concedere di esser solo un’immagine che noi dipingiamo per amor della nostra anima, e non un nome magico col quale noi stabiliamo cose obbiettive. La nostra visione del mondo non deve servire per il mondo, ma per noi. Se non creiamo un’immagine del mondo nel suo complesso non vediamo neppur noi, che pur siamo fedeli riproduzioni appunto di questo mondo. E solo nello specchio della nostra immagine del mondo possiamo vedere completamente noi stessi. Noi appariamo solo nell’immagine che noi creiamo. Solo nel nostro atto creatore noi ci poniamo completamente in luce e diveniamo riconoscibili a noi stessi come un tutto. Noi non poniamo mai al mondo un volto differente dal nostro, e appunto per questo dobbiamo farlo, per trovare noi stessi. Piú alto che la scienza o l’arte fini a se stesse sta infatti l’uomo, creatore dei suoi strumenti. Non siamo mai piú vicini all’eccelso mistero di tutte le origini che quando conosciamo il nostro io, che ci illudiamo di aver sempre conosciuto. Ma le profondità dell’universo ci sono piú note che le profondità dell’io, dove possiamo udire quasi direttamente l’Essere ed il Divenire creatori, ma senza comprenderli.
In questo senso la psicologia ci dà nuove possibilità, dimostrando l’esistenza di immagini fantastiche che nascono dall’oscuro fondo della psiche, e quindi ci dànno conoscenza dei processi che avvengono nell’incosciente. I contenuti dell’incosciente collettivo sono i risultati delle funzioni psichiche della serie degli antenati, sono dunque, nel loro insieme, un’immagine naturale del mondo, confluita e condensata da un’esperienza di milioni di anni. Queste immagini sono mitiche e quindi simboliche, perché esprimono l’accordo del soggetto sperimentante coll’oggetto sperimentato. Si capisce che tutta la mitologia e tutte le rivelazioni siano derivate da questa matrice di esperienza, e che quindi debbano derivarne anche in futuro tutte le idee riguardanti il mondo e l’uomo. Sarebbe però un errore credere che le immagini fantastiche dell’incosciente possano venire immediatamente applicate, come se fossero una rivelazione. Esse sono solamente la materia prima, e per acquistare un senso debbono ancora venir tradotte nel linguaggio del loro tempo. Se questa traduzione riesce, il mondo quale noi le vediamo è nuovamente collegato, mediante il simbolo di una visione del mondo, coll’esperienza primordiale dell’umanità; l’uomo storico e universale che è in noi porge la mano all’uomo individuale che vive attualmente, evento comparabile al congiungimento mitico del primitivo cogli avi totemistici nella cena rituale.
La psicologia analitica è in questo senso una reazione contro l’esagerato razionalismo della coscienza, la quale, cercando di generare processi indirizzati, si isola dalla natura e cosí strappa l’uomo dalla sua naturale storia e lo trapianta in un presente razionalmente limitato, che si estende al breve periodo fra la nascita e la morte. Questa limitazione genera un sentimento di accidentalità e di insensatezza che ci impedisce di vivere la vita con quella ricchezza di significati che essa richiede per essere completamente vissuta. La vita si appiattisce e non rappresenta piú compiutamente l’uomo. Perciò una grande parte di vita non vissuta cade in preda all’incosciente. Si vive come si cammina quando si hanno scarpe troppo strette. L’eternità, che è cosí caratteristica della vita dei primitivi, manca completamente alla nostra vita. Le nostre mura razionali ci isolano dall’eternità della natura. La psicologia analitica cerca di far breccia nelle mura, scavando nell’incosciente per trarne fuori quelle immagini fantastiche che l’intelletto razionale aveva rigettate. Queste immagini sono fuori delle mura, appartengono alla natura in noi, che in apparenza giace profondamente sepolta dietro di noi, e contro la quale noi ci siamo trincerati dietro le mura della ragione. Da ciò nacque quel conflitto colla natura che la psicologia analitica cerca di risolvere non tornando alla natura, con Rousseau, ma persistendo nello stadio razionale felicemente raggiunto e arricchendo la nostra coscienza colla nozione dello spirito naturale.
Chi riesce a gettare uno sguardo su queste cose ne riceve una potentissima impressione. Ma non potrà gioire a lungo di questa impressione, perché subito dovrà chiedersi come potrà assimilare il nuovo acquisto. Ciò che è di là dal muro sembra a tutta prima inconciliabile con ciò che è di qua. Sorge cosí il problema della traduzione nel linguaggio contemporaneo, o meglio della creazione di un nuovo linguaggio, e in tal modo è posta la questione della visione del mondo, cioè di quella visione che ci deve aiutare a trovare l’accordo col nostro uomo storico, in maniera che i suoi accenti profondi non vengano sopraffatti dalle aspre note della coscienza razionale, o che, inversamente, l’inestimabile luce della mente individuale non affoghi nelle tenebre infinite dell’anima naturale. Giunti a questa questione dobbiamo abbandonare il campo della scienza, perché ora ci occorre la decisione creatrice, per affidare la nostra vita a questa o a quella ipotesi. Comincia qui, in altre parole, il problema etico, senza il quale non è pensabile una visione del mondo.