Propongo una prima serie di domande, sono quelle che farebbe un terapista empirista ad un suo paziente: C’è una prova a sostegno del suo pensiero? C’è una prova in grado di confutare questa idea? Esiste una spiegazione alternativa? Quale è la cosa peggiore che potrebbe accadere nel caso in cui questo pensiero fosse vero? Ammesso che non stia già pensando al peggio? Se ciò che lei pensa accadesse, come potrebbe affrontarlo? Quale è la cosa migliore che potrebbe accadere? Quale è l’esito più realistico? Quali effetti produce il fatto che lei crede cecamente al suo pensiero? Che effetto potrebbe avere cambiare il suo pensiero? Se qualcun altro, per esempio un amico si trovasse nella stessa situazione che consiglio gli darebbe? Che cosa ha significato il pensiero automatico negativo?
Quando si impone un pensiero automatico, questo sembra originarsi da una credenza-madre, un certo nucleo di senso, riassumibile in una frase del tipo “non valgo niente”, “gli altri sono sicuramente più bravi e competenti di me”, “sono un fallito e gli altri dei vincenti”, “nessuno mi ama”… .
Per rispondere a queste credenze-matrice generalmente usiamo delle assunzioni, ovvero delle modalità per affrontarle del tipo: essendo un incompetente (premessa 1) ed essendo gli altri più bravi di me (premessa 2), allora se lavorerò duramente farò bene (conclusione). Potremmo dire che questa potrebbe essere una risposta positiva alla credenza di base: “sono un incompetente”, ovviamente, fino ad un certo punto oltre il quale iniziano i problemi: qualcosa di troppo ingenera sofferenza.
Prendiamo la sequenza: “essendo un incompetente ed essendo gli altri più bravi di me, allora, se non faccio un ottimo lavoro, sono un fallito”. In questo caso, la credenza principale è che essere competenti in qualcosa è una condizione irrinunciabile, è uno scopo irrinunciabile, non si può vivere senza essere competenti in qualcosa e che, di riflesso, essere incompetenti (polo negativo della credenza-scopo principale) è assolutamente terribile.
Numerosi sono i modi di dire-pensare la condizione (presunta) di inadeguatezza: sono incompetente, inefficace, non sono capace di fare bene niente, sono inadeguato, impotente, debole, vulnerabile, una vittima, bisognoso, intrappolato, fuori controllo, un fallimento, non sono all’altezza degli altri, non sono abbastanza bravo per raggiungere certi risultati, sono un perdente. Come numerosi sono i modi di dire-pensare la nostra (presunta) non amabilità: non sono amabile, non sono piacevole, non sono desiderabile, non sono attraente, non sono voluto, nessuno si preoccupa per me, sono diverso, sono cattivo (quindi gli altri non mi ameranno), sono manchevole (quindi gli altri non mi ameranno), non sono abbastanza bravo (per essere amato dagli altri), sono destinato a essere rifiutato, sono destinato a essere abbandonato, sono destinato a essere solo.
Infine, abbiamo i modi di dire-pensare la nostra (presunta) mancanza di valore: sono senza valore, inaccettabile, cattivo, sporco, immorale, pericoloso, tossico, diabolico, non merito di vivere. Pretendiamo sempre e comunque una approvazione dagli altri e tutte le volte ci scontriamo con la nostra incapacità (inadeguatezza), inutilità (mancanza di valore), che poi ci rendono poco amati dagli altri (non amabilità).
Secondo la prospettiva terapeutica che definisco empirista, i pazienti sono affetti da una tendenza preponderante a leggere i fatti esterni attraverso schemi di senso del tipo: sminuire i buoni risultati conseguiti (“Ho fatto un buon lavoro, ma non vuol dire che io sia competente, è solo fortuna”) oppure, esagerare i risultati negativi (“Il fatto che io abbia commesso quell’errore evidenza quanto io sia inadeguato”). Detto altrimenti, alcuni pazienti credono che ci sia una soluzione perfetta per ogni problema e il vero tormento diventa il fatto di non riuscire a trovarla e, per questo motivo, il mondo diventa terribile, catastrofico. La catastrofe consiste in una predizione del futuro, fumosa e priva di dettagli dove “tutto sarà finito”, dove non ci sarà soluzione possibile. Un tunnel senza uscita, dove non sono visibili neanche gli aspetti negativi dello scenario proiettato ma irrappresentabile. A volte basta una piccola frustrazione ed ecco che si finisce per pretendere che tutto sia facile, gradevole e se non lo è, allora tutto diventa insopportabile, terribile, orrendo, catastrofico.
L’unico modo di affrontare questa condizione sarebbe preoccuparsi il più possibile senza pensare ad altro. Questa condizione si fonda su una certa predilezione per i dettagli negativi a scapito di un quadro che potrebbe essere invece più positivo. Detto altrimenti, si tende ad arrivare a conclusioni basandosi solo su una piccola porzione dei dati disponibili, anziché guardare la situazione o il contesto nella sua interezza, a volte sulla base di un piccolo intervallo temporale.
Spesso si assiste a una vera e propria ipergeneralizzazione, dove il dettaglio porta ad una conclusione (generalizzazione) negativa che ovviamente va ben al di là della reale situazione: “durante il mio discorso, una persona ha sbadigliato, dunque io sono una persona noiosa, oppure, sto andando male, oppure, mi prenderanno in giro”, si marca cioè con una etichetta un certo tratto o caratteristica o episodio generalizzando un solo dettaglio: “Sono un buon a nulla!”. Altre volte ancora invece si tende a collegare fatti esterni a noi stessi, per esempio attribuendo un certo comportamento o reazione di una persona a noi stessi: “Il cameriere non mi ha sorriso perché è irritato da me perché ho fatto qualcosa che non andava”. Ed infine, capita di essere convinti di sapere cosa stanno pensando gli altri: “Staranno pensando che io sono un incompetente, anche perché sono vestito male oggi”.
Si vede bene in questa sequenza di situazioni cliniche, la differenza tra il razionalismo terapeutico e l’empirismo terapeutico. Quest’ultimo focalizza il suo processo sulla più consona interpretazione dei fatti, degli accadimenti piuttosto che sulla messa in evidenza degli aspetti irrazionali dei nostri ragionamenti. Infatti, se il razionalismo si ripropone di intervenire soprattutto sull’ipotesi peggiore, senza considerare indipendentemente dal fatto che poggi su delle evidenze o meno, lavorando quindi soprattutto sull’accettazione della frustrazione proveniente dal mondo, ovvero da ciò che non ci è dato controllare; l’empirismo terapeutico intende promuovere invece una lettura più equilibrata di ciò che accade, di ciò che accadrebbe realmente e che si tende a leggere in modo errato, commettendo cioè degli errori cognitivi. L’empirismo terapeutico si fonda sull’ipotesi che i disturbi psichici siano l’effetto di questi errori ovvero che siano causati da una valutazione errata del mondo intorno a noi. Per esempio, una reazione somatica di allarme dovrebbe essere causata dalla presenza di un pericolo. La reazione somatica è alimentata dall’aumento della produzione dell’adrenalina che serve a predisporre l’organismo al combattimento o alla fuga, cioè, ad un’azione più efficace possibile e congrua per affrontare il pericolo. Spesso queste reazioni si hanno quando leggiamo male i fatti esterni.