Per Lacan l’uomo è l’effetto del linguaggio, linguaggio che con le sue leggi è autonomo e con la sua “onnipotenza” è in grado di condizionare la soggettività dell’uomo. L’Altro, come luogo della parola, istituisce il “marchingegno” dell’inconscio, l’altra scena[1], ovvero il luogo dove non sono tanto le scelte o le azioni del soggetto a determinare il suo destino, ma le determinazioni simboliche effetto della parola dell’Altro.
Il simbolico oltrepassa la dimensione del fenomeno e della sua possibile comprensione, c’è qualcosa di incomprensibile nella parola: la sua materialità, il suo essere strumento espressivo, qualcosa insomma che va al di là della sua dimensione comunicativa. Lacan privilegia la dimensione “formale” della parola rispetto a quella del “contenuto”, la dimensione del segno in quanto tale al posto di ciò a cui il segno rimanderebbe. Nella fase più avanzata delle sue ricerche Lacan parlerà di mot-erialisme, giocando con la parola mot (parola) e materialismo.
Il simbolico lascia emergere la dimensione della sintassi, delle connessioni rispetto alla dimensione del significato, della semantica, dei contenuti. Il registro dell’immaginario è quello della comprensione immediata[2] che ingenera ostilità, dove i segni provenienti dall’ambiente circostante “parlano”, vogliono dire qualcosa, tutto diventa segno che mi riguarda e che interferisce con la dimensione del simbolico. L’immaginario interferisce con la parola piena del soggetto rivolta all’Altro, la scherma.
Lacan, sullo schema a L evidenzia come il soggetto parli attraverso l’io che pertiene propriamente alla dimensione dell’immaginario, della rivalità con l’altro nella lotta per il riconoscimento, una lotta che necessita di un terzo, dell’Altro, senza il quale si scivolerebbe verso una battaglia per la vita e la morte. L’Altro è al di là di questa lotta, è il “garante” anche se, non sembra veramente in grado di assumersi questa funzione” essendo fuori dalla “gara” e ambiguo, infatti, le sue reali intenzioni non sono mai chiare e certe, danno adito sempre al dubbio, all’incertezza. È benevolo o ostile? È dalla mia parte o contro di me? È sulla risposta fornita dal soggetto che prende forma il fantasma nella nevrosi o il deliro nella psicosi: l’Altro mi vuole bene o male? Qualunque sia la risposta dell’Altro c’è sempre un margine per il dubbio sulle sue reali intenzioni.
‘Qualcosa’, tuttavia, resiste alla presa del significante, qualcosa che ci rende mancanti e persi nel drammatico tentativo di recuperare ‘qualcosa’ di ciò che abbiamo perduto, nella ricerca di una armonia persa per sempre. Questo resto che manca all’appello del significante si fa sentire. Quindi, nonostante
«l’inconscio [sia] la somma degli effetti della parola su un soggetto, a quel livello in cui il soggetto si costituisce dagli effetti del significante […] Paradossalmente, la differenza che assicura la sussistenza più sicura del campo di Freud, è che il campo freudiano è un campo che, per sua natura, si perde. È qui che la presenza dello psicoanalista è irriducibile, come testimone di questa perdita […] è una perdita secca, che non si salda con nessun guadagno, se non per la sua ripresa nella funzione della pulsazione»[3].
Ecco che qui Lacan apre a una nuova concezione dell’inconscio: «l’innovazione a cui ho fatto allusione, e che si nomina richiamo del campo e della funzione della parola e del linguaggio nell’esperienza psicoanalitica, non pretende di essere una posizione esaustiva rispetto all’inconscio, giacché è, essa stessa, intervento nel conflitto.»[4]. L’inconscio non è tutto strutturato come linguaggio, è battito di apertura e chiusura ed è qui che il soggetto prova a fare i conti con l’oggetto che è allo stesso tempo “perduto” e “causa”, qualcosa che prova a emergere, spinge per venire a galla, si fa sentire nel suo pressare ma lo si incontra sempre come mancanza. È causa in mancanza e la ricerca nell’Altro di qualcosa che possa colmare questa mancanza apre a un problema importante: «Nel persuadere l’Altro che ha quel che può completarci, ci assicuriamo di poter continuare a misconoscere quel che ci manca»[5]. Quindi, di nuovo, il dispositivo analitico va al di là della posizione intersoggettiva, duale. Il transfert, così come lo intende Lacan, consente al soggetto di mettere in scena, agieren, acting aut, qualcosa che è dell’ordine del trauma e che è perso per sempre e non può essere rimemorato ma, può, invece, essere evocato proprio nella messa in scena. Lo psicoanalista incarna l’indicibile del trauma e lo fa innanzitutto mettendo da parte il proprio inconscio, il proprio desiderio, facendosi strumento del desiderio del soggetto.
[1] anderer Schauplatz, S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Boringhieri, Torino, 1974, p. 489.
[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro II. L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica, 1954-1955, Torino, Einaudi, 2006, p. 12.
[3] Ivi, p. 124.
[4] Ivi, 125.
[5] Ivi, p. 131.