Fonte: Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 120-123
I concetti puri dell’intelletto si riferiscono mediante il semplice intelletto ad oggetti dell’intuizione in generale, sia essa la nostra o un’altra qualsiasi, purché sensibile, ma appunto perciò essi sono semplici forme del pensiero, con cui ancora non è conosciuto nessun oggetto determinato. La sintesi o unificazione del molteplice in esse si riferisce semplicemente all’unità dell’appercezione, ed è perciò il fondamento della possibilità della conoscenza a priori, in quanto questa si fonda sull’intelletto; ed è perciò non solo trascendentale, ma anche semplicemente intellettuale pura. Poiché peraltro in noi c’è a priori una certa forma a base dell’intuizione sensibile, la quale riposa sulla recettività del potere rappresentativo (sensibilità), l’intelletto, come spontaneità, può determinare il senso interno mediante il molteplice di rappresentazioni date, secondo l’unità sintetica dell’appercezione, e cosi pensare a priori l’unità sintetica dell’appercezione del molteplice dell’intuizione sensibile, come la condizione a cui debbono necessariamente sottostare tutti gli oggetti della nostra (umana) intuizione; onde le categorie, in quanto semplici forme del pensiero, acquistano realtà oggettiva, cioè applicazione ad oggetti che ci possono esser dati nell’intuizione, ma solo come fenomeni; perché soltanto di essi noi siamo capaci di avere un’intuizione a priori. Questa sintesi del molteplice dell’intuizione sensibile, che è possibile a priori e necessaria, può esser chiamata figurata (synthesis speciosa), per distinguerla da quella che sarebbe pensata rispetto al molteplice di un’intuizione in generale nella semplice categoria, e che si chiama unificazione intellettuale (synthesis intellectualis); ambedue sono trascendentali, non solo perché esse stesse procedono a priori, ma altresì perché fondano a priori la possibilità di altra conoscenza.
Se non che la sintesi figurata, se si riferisce semplicemente all’unità sintetica originaria dell’appercezione, cioè a questa unità trascendentale che è pensata nelle categorie, deve, per distinguersi dalla unificazione puramente intellettuale, chiamarsi sintesi trascendentale dell’immaginazione. Immaginazione è la facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua presenza, nell’intuizione. Ora, poiché ogni nostra intuizione è sensibile, così l’immaginazione, per via della condizione subbiettiva per cui soltanto può dare ai concetti dell’intelletto una intuizione corrispondente, appartiene alla sensibilità; pure, in quanto la sua sintesi è una funzione della spontaneità (determinante e non, come il senso, semplicemente determinabile: che può, perciò, determinare a priori il senso secondo la propria forma, in conformità dell’unità dell’appercezione), l’immaginazione è pertanto una facoltà di determinare a priori la sensibilità; e la sua sintesi delle intuizioni, conforme ajle categorie, deve essere sintesi trascendentale dell’immaginazione; che è un effetto dell’intelletto sulla sensibilità, e la prima applicazione (base, insieme, di tutte le altre) di esso ad oggetti dell’intuizione a noi possibile. Essa è da distinguere, come sintesi figurata, dall’intellettuale, che è senza immaginazione e solo per mezzo dell’intelletto. Ora, in quanto l’immaginazione è soltanto spontaneità, io la chiamo anche talvolta immaginazione produttiva, e la distinguo così dalla riproduttiva, la cui sintesi è sottoposta unicamente a leggi empiriche., a quelle cioè dell’associazione; e che quindi non conferisce punto alla spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, né rientra perciò nella filosofia trascendentale, ma nella psicologia.
È questo ora il luogo di spiegare il paradosso, da cui ciascuno sarà stato colpito nell’esposizione della forma del senso interno: che cioè questo rappresenti alla coscienza noi stessi, non già come noi siamo in noi stessi, ma soltanto come appariamo a noi; poiché noi ci intuiamo soltanto come siamo interiormente modificati; il che sembra essere contraddittorio, dovendo noi essere passivi rispetto a noi stessi; e quindi si è soliti nei sistemi di psicologia identificare piuttosto il senso interno sia facoltà dell’appercezione (che noi teniamo con ogni cura distinti). Ciò che determina il senso interno è l’intelletto e il suo potere originario di unificare il molteplice dell’intuizione, cioè di sottoporlo ad una appercezione (come a ciò su cui riposa la sua possibilità). Ora, poiché l’intelletto stesso in noi uomini non è una facoltà di intuizioni, e queste non può accogliere in sé, anche se date nella sensibilità, per collegare quasi il molteplice di una sua propria intuizione; così la sua sintesi, se esso è considerato solo per se stesso, non è evidentemente altro che l’unità dell’atto, del quale egli, come di un atto, è cosciente anche senza sensibilità, ma per il quale è capace di determinare da sé interiormente la sensibilità, rispetto al molteplice che gli può essere dato secondo la forma dell’intuizione di essa sensibilità. Esso dunque, sotto il nome di sintesi trascendentale dell’immaginazione, esercita sul soggetto passivo, di cui esso è facoltà, quella azione da cui a buon .diritto diciamo che il senso interno è modificato. L’appercezione e la sua unità sintetica son tanto poco una sola cosa col senso interno, che quella piuttosto, come fonte di ogni unificazione, si rivolge al molteplice delle intuizioni in generale, e, sotto il nome di categorie, anteriormente ad ogni intuizione sensibile, ad oggetti in generale; e al contrario il senso interno contiene la semplice forma della intuizione, ma senza unificazione in essa del molteplice, e perciò non contiene alcuna intuizione determinata, che è possibile soltanto mediante la coscienza della sua determinazione per l’atto trascendentale dell’immaginazione (influsso sintetico dell’intelletto sul senso interno), che io ho chiamato sintesi figurata. Questo noi riscontriamo sempre in noi stessi. Noi non possiamo pensare una linea, senza tracciarla nel pensiero, né pensare un circolo, senza descriverlo, né rappresentarci le tre dimensioni dello spazio, senza condurre dallo stesso punto tre linee verticalmente l’una all’altra; e neanche pensare il tempo, senza che, tirando una linea retta (che sarà la rappresentazione esterna figurata del tempo), badiamo all’atto della sintesi del molteplice, onde successivamente determiniamo il senso interno, e quindi alla successione di questa determinazione in esso. Il moto, come operazione del soggetto (non come determinazione dell’oggetto)1, e perciò la sintesi del molteplice nello spazio – se astraiamo da questo e consideriamo soltanto quell’operazione, per cui determiniamo il senso interno secondo la sua forma – genera anche primieramente il concetto di successione. L’intelletto dunque non trova nel senso interno una siffatta unificazione del molteplice già pronta, ma la produce, in quanto esso lo modifica. Ma in che modo l’Io che pensa differisca dall’Io che intuisce se stesso (in quanto posso rappresentarmi ancora un’altra maniera di intuire, almeno come possibile), pur formando con questo tutt’uno come lo stesso soggetto; in che modo perciò io possa dire: io, come intelligenza e soggetto pensante, conosco me stesso come oggetto pensato – in quanto io sono anche dato a me nell’intuizione, solo come gli altri fenomeni, cioè non come io sono innanzi all’intelletto, ma come apparisco a me – è un problema che non presenta in sé né maggiori, né minori difficoltà, che non ne presenti il come io possa essere a me stesso un oggetto in generale, e un oggetto di intuizione, e precisamente di percezioni interne. Ma che tuttavia debba veramente essere così, se si prende lo spazio per una semplice forma pura dei fenomeni dei sensi esterni, può esser chiaramente dimostrato da questo: che noi non ci possiamo rappresentare il tempo, che pure non è per nulla oggetto di intuizione esterna, altrimenti che sotto l’immagine simbolica di una linea in quanto la tracciamo; che senza questa maniera di presentarcelo non potremmo conoscere l’unità della sua dimensione; come anche che noi, per determinare la durata o anche la posizione nel tempo di tutte le percezioni interne, dobbiamo continuamente ricorrere a ciò che le cose esterne ci presentano di mutevole, e dobbiamo perciò ordinare le determinazioni del senso interno nel tempo, in quanto fenomeni, allo stesso modo che nello spazio ordiniamo quelle dei sensi esterni; quindi, se per questi ammettiamo che con essi noi conosciamo gli oggetti solo in quanto siamo modificati dal di fuori, anche per il senso interno dobbiamo riconoscere che con esso intuiamo noi stessi soltanto come veniamo interiormente modificati da noi stessi: ossia, per ciò che riguarda l’intuizione interna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto solo come fenomeno, ma non già per quel che esso è in se stesso.