Il sintomo oggi è qualcosa di cui sbarazzarsi. Invece andrebbe colto come questione che segna la particolarità del soggetto. Oggi non ci si assume la responsabilità del proprio sintomo. C’è una nostra responsabilità sul sintomo.
L’inconscio è un sapere che ci sorprende: Qualcosa della mia parola mi sorprende, quando dimentico un nome o dico qualcosa che non volevo dire: da dove arriva ciò? Da dove arriva questo o quell’altro pensiero che mi tormenta? Da un punto altro. Effrazione che produce dell’affetto che tocca il corpo: l’inconscio è il luogo dei significanti, è il luogo dei suoni delle lettere, delle parole.
Noi cerchiamo un continuo rispecchiamento nell’altro, siamo assetati di “identificazione”. Mettiamo nell’altro quello che vogliamo vedere: Io son questo quello e quell’altro, l’Altro è preso come specchio. “Come sei pallido” un amico un giorno mi ha detto ed io a lui: “ma sei sicuro, vado subito a vedere!”.
Esperire l’inconscio significa esperire ciò che è oltre l’io: è l’altra scena, un luogo altro, è il luogo dove qualcosa del pensiero su noi stessi ci sfugge. L’inconscio è esperienza in atto. Il sintomo ha una struttura di linguaggio ma è organizzato intorno a qualcosa che non viene scalfito dalla parola. Il sintomo ha una radice sessuale.
Oggi non ci si vuole assumere la responsabilità del proprio sintomo; c’è una nostra responsabilità nel sintomo.
L’inconscio è esperienza in atto. Non è qualcosa su cui ci possiamo sedere.