Brani antologici Seminario IV: Jacques Lacan, Il seminario. Il libro IV. La relazione d’oggetto, Enaudi, Torino, 2007. La struttura dei miti nell’osservazione della fobia del piccolo Hans
Che ne è in questo caso? Nella condotta della madre con il piccolo Hans che trascina ovunque con lei, dal gabinetto fino al letto, tutto sta a indicare che il bambino è un’appendice indispensabile. La madre di Hans, che Freud adora, questa madre così buona e così piena di premure per questo bambino, sehr besorgt, bella più che mai, trova alla maniera di cambiarsi le mutande davanti al bambino. È quantomeno una dimensione piuttosto particolare. Se vi è qualcosa di ben fatto per illustrare quel che dico della dimensione essenziale di ciò che si trova dietro al velo, questo è proprio l’osservazione del piccolo Hans, e molte altre, ancora, non si vede già che il bambino è per lei la metonimia del fallo? (S4, 244)
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Se non cogliamo il fatto che qui si inserisce la passivizzazione primordiale, non possiamo capire nulla dell’osservazione dell’uomo dei lupi. Ciò che di meglio può fare il bambino in questa situazione in cui viene preso nella cattura immaginari, nel trabocchetto dove si introduce per essere l’oggetto di sa madre, è passare al di là e rendersi conto, a poco a poco, se così si può dire, di ciò che egli è veramente, egli è immaginato, quindi ciò che di meglio può fare è immaginarsi tale quale è immaginato, vale a dire, se così possiamo esprimerci, passare alla via intermedia. A partire, però, da momento in cui esiste anche in quanto reale, non ha molta scelta. (S4, 246)
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Il nostro caro piccolo Hans, a un tratto, si trova precipitato, o quantomeno precipitabile, dalla sua funzione di metonimia. Per dire questa parola in una maniera più viva che teorica, egli si immagina come nulla. Che cosa succede dal momento in cui la fobia entra in gioco nella su esistenza? Una cosa è certa, di fronte ai cavalli si angoscia, Angstpferde, e malgrado il tono che questa parola dà, non è angoscia che prova, ma paura. Il bambino ha paura che succeda qualcosa di reale, due cose, ci dice, che i cavalli mordano, che i cavalli cadano. La fobia non è assolutamente l’angoscia. L’angoscia – non faccio che riprendere Freud che l’ha perfettamente articolata – è qualcosa che non ha oggetto. I cavalli escono dall’angoscia, ma ciò che portano è la paura. La paura concerne sempre qualcosa di articolabile, di nominabile, di reale: questi cavalli possono mordere, possono cadere, hanno ancora molte altre proprietà. (S4, 247-248)
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Se dobbiamo assolutamente tentare di indicare in quale direzione si innesca non direi la funzione della fobia, perché non dobbiamo precipitarci, ma il suo senso, dobbiamo dire questo: essa introduce nel mondo del bambino una struttura, mette precisamente in primo piano la funzione di un interno e di un esterno, fino a quel momento, il bambino era tutto sommato all’interno di sua madre, ne è appena stato gettato fuori, o si immagina gettato, è nell’angoscia, ed eccolo che, con l’aiuto della fobia, instaura un nuovo ordine dell’interno e dell’esterno, una serie di soglie che strutturano il mondo. (Ibidem)
La paura non può in nessun caso essere considerata come elemento primitivo, elemento ultimo, nella struttura della nevrosi. Nel conflitto nevrotico, la paura interviene come un elemento che difende anticipatamente da qualcosa di assolutamente altro, che è per sua natura senza oggetto, val a dire l’angoscia. Ecco che cosa la fobia ci permette di articolare. (S4, 249)