Fonte: Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 913-917 [J. G. Fichte, Fondazione di tutta la dottrina della scienza]
Posto dunque un fatto qualunque della coscienza empirica, se ne separano una dopo l’altra tutte le determinazioni empiriche fino a che resta soltanto ciò che in nessun modo non può non essere pensato, e dal quale non può piú essere separato nulla.
La proposizione: A è A (che vale quanto A = A, ché questo è il significato della copula logica) è ammessa da ciascuno; ed invero senza minimamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa ed indubitabile.
Qualora però qualcuno ne dovesse richiedere una dimostrazione, non si attenderebbe certo a darla, ma si affermerebbe che quella proposizione è assolutamente, cioè senza ragione ulteriore, certa; è, cosí facendo, senza dubbio con l’assenso di tutti, ci si ascrive la facoltà di porre qualcosa assolutamente.
Con l’affermazione che la proposizione precedente è certa in sé, non si pone che A esista. La proposizione A è A non è per nulla equivalente a quest’altra: A esiste, oppure esiste un A […].
Con la proposizione A = A si giudica. Ma ogni giudizio è, secondo la coscienza empirica, un agire dello spirito umano, giacché possiede tutte quelle condizioni dell’atto nell’autocoscienza empirica che vanno presupposte, ai fini della riflessione, come certe e indubitate.
A fondamento di questo agire sta qualcosa fondato su nulla di superiore, e cioè X = io sono.
Perciò l’assolutamente posto e fondato su sé stesso è fondamento di un certo agire dello spirito umano (l’intera dottrina della scienza dimostrerà che lo è di tutto), e quindi il suo puro carattere, il puro carattere dell’attività in sé: prescindendo dalle particolari condizioni empiriche della stessa.
Dunque, la posizione dell’io ad opera di sé stesso è la sua pura attività. L’io pone sé stesso; ed esso è in forza di questo mero porre ad opera di sé stesso; e viceversa: l’io è, ed esso pone il suo essere in forza del suo mero essere. Esso è, al tempo stesso, l’agente ed il prodotto dell’azione; l’attivo e ciò che è prodotto dall’attività; azione e fatto sono una sola e medesima cosa; e perciò l’io sono è espressione di un atto; ma anche del solo atto possibile, come dovrà risultare da tutta la dottrina della scienza […].
Porre sé stesso ed essere sono, nell’uso dell’io, pienamente identici. La proposizione: io sono perché ho posto me stesso, può, pertanto, essere espressa anche cosí: io sono assolutamente, perché io sono.
Inoltre, l’io che si pone e l’io che è sono pienamente identici, una sola e medesima cosa. L’io è quello che esso si pone, e si pone come quello che esso è. Dunque: io sono assolutamente quello che sono.
L’espressione immediata dell’atto ora sviluppato sarebbe la formula seguente: io sono assolutamente, e cioè: io sono assolutamente perché io sono, e sono assolutamente ciò che sono; l’una e l’altra cosa per l’io.
Se il racconto di questo atto lo si pensa al vertice di una dottrina della scienza, la sua formulazione dovrebbe avvenire press’a poco in questi termini: L’io originariamente pone assolutamente il proprio essere.
Noi siamo partiti dalla proposizione A = A non come se da essa si potesse dedurre la proposizione: io sono, ma perché dovevamo partire da una qualunque proposizione certa, data nella coscienza empirica. Ma anche dalla nostra spiegazione è risultato che non già la proposizione A = A fonda la proposizione: io sono, ma che, piuttosto, quest’ultima fonda la prima.
Se nella proposizione “io sono” si astrae dal contenuto determinato, e si lascia la mera forma che è data con quel contenuto, la forma dell’inferenza dall’essere posto all’essere, come deve accadere ai fini della logica, si ottiene allora come principio della logica la proposizione A = A che può essere dimostrata e determinata solo dalla dottrina della scienza. Dimostrata: A è A perché l’io che ha posto A è identico a quello in cui esso è posto; determinata: tutto ciò che è, è solo in quanto è posto nell’io, e fuori dell’io è nulla. Nessun possibile A nella proposizione precedente (nessuna cosa) può essere altro che un alcunché posto nell’io. Se si astrae inoltre da ogni giudicare, come atto determinato, e ci si limita a considerare il tipo di azione in generale dello spirito umano data da quella forma, si ottiene la categoria della realtà. Tutto ciò a cui la proposizione A = A è applicabile ha realtà nella misura in cui la stessa è ad esso applicabile. Ciò che è posto mediante il mero porre d’una cosa qualsiasi (di un alcunché posto dall’io) è una realtà, è la sua essenza.