Il movimento è fatto di immobilità. Bergson chiarisce questo punto riprendendo, e per certi versi risolvendo, il paradosso di Zenone.
Seguendo l’argomentazione di Zenone, in ogni istante la freccia in volo è ferma perché se si muovesse, il suo movimento si scomporrebbe in due momenti.
Prima è qui, tempo uno.
Poi è lì, tempo due.
Istante uno, fermo immagine.
Istante due, fermo immagine.
Questa logica pratico-cinematografica, dice Bergson è alla base di tutto il pensiero occidentale e non tiene in conto la durata, e cioè si dimentica che la traiettoria si crea “tutta d’un tratto” e che, se è possibile suddividere come meglio si crede quella traiettoria una volta creata, non si potrà mai dividere la sua creazione, cioè quell’atto progressivo in divenire che non è fissabile in un fermo immagine.
Facendo coincidere il tempo e il movimento con la rappresentazione spaziale, la linea, si commette un grave errore. Cioè, il movimento diventa traiettoria (rappresentazione geometrico-spaziale) e linguaggio (qui, lì, uno, due).
Sia il senso comune e sia il linguaggio fanno il loro dovere: considerano il divenire come una cosa utilizzabile, usabile. E quindi ogni movimento descrive uno spazio, e in ogni punto di questo spazio l’oggetto in movimento potrebbe arrestare il suo muoversi. In altre parole, Bergson ci dice che ci sono dei movimenti reali che non coincidono con le traiettorie raffigurabili con una linea. La linea e la traiettoria hanno una funzione ben precisa. Trasformano il puro divenire in qualcosa di utilizzabile, di usabile. Per la vita pratica è fondamentale che ogni movimento descriva uno spazio.