Il primo passo che ci orienta verso la vita sociale è lo schema fondamentale che struttura il nostro modo di percepire: lo spazio omogeneo. Dall’interno all’esterno, a poco a poco, gli stati di coscienza si trasformano in oggetti o in cose. Si staccano gli uni dagli altri. Si staccano da noi. Li percepiamo solo all’interno dello spazio omogeneo, in cui ne abbiamo fissato l’immagine e attraverso le parole le abbiamo resi famigliari.
È così che nasce un secondo io che ricopre il primo, così nasce un “me” che percepisce stati distinti e che rappresenta un’ingegnosa disposizione di stati in un certo senso impersonale: momenti distinti, differenziati, proprio per rispondere meglio alle esigenze della vita sociale.[i]
Noi separiamo le nostre sensazioni, le une dalle altre. Suddividiamo i nostri stati di coscienza, separandoli gli uni dagli altri e immaginandoli nello spazio. Siamo convinti di sentire i nostri stati di coscienza ed invece ci troviamo in presenza dell’ombra di noi stessi, ci troviamo dinnanzi alla giustapposizione di stati inerti. Traduciamo le nostre sensazioni in parole usando termini che rappresentano l’elemento comune, il residuo impersonale, delle sensazioni provate dalla società intera, che diviene schema generale di quella sensazione. Trattiamo lo scorrere, il fluire, il divenire, il durare, l’essere con lo spazio, giustapponendo le sensazioni, che si compenetrano, indistintamente, eterogeneamente, come se fossero simboli.[ii] Ricostruiamo il fluire della nostra percezione nello spazio.
Identifichiamo lo “svolgersi del tempo” con un movimento indipendente da quello del nostro corpo. Generalmente si usa il movimento di rotazione della terra. È facile comprendere che questo è spazio e non tempo. Ci rappresentiamo il tempo come lo svolgersi di un filo e cioè come il tragitto di un oggetto in movimento (un mobile) che ha la funzione di misurarlo. Noi misuriamo il tempo di questo svolgersi, e di conseguenza anche il tempo dello svolgersi universale. Per riuscire a fare ciò abbiamo bisogno del concetto di simultaneità, senza il quale le cose non sembrerebbero svolgersi tutte insieme al filo. È grazie a questo concetto che ogni istante attuale è per noi l’estremità di un filo.
L’abitudine di convertire il tempo in spazio ci consente di costruire,
oltre all’idea di istante, anche quella di istanti simultanei. Sappiamo che la
durata non ha istanti, una linea è però delimitata da punti. Se ad una durata
faccio corrispondere una linea, alle porzioni della linea dovrebbero
corrispondere “porzioni di durata”, e all’estremità della linea una “estremità
della durata”. Ma l’istante è qualcosa che non esiste attualmente ma solo
virtualmente, cioè l’istante è ciò che avremmo se la durata si fermasse. Ma la
durata non si ferma mai. Il tempo reale non potrebbe mai e poi mai fornire l’istante.
L’istante nasce come punto matematico. Nasce dallo spazio. Tuttavia, senza il
tempo reale, e cioè senza la durata, il punto sarebbe solo un punto matematico.
L’istantaneità implica perciò due condizioni: la continuità temporale reale, quella
che Bergson chiama “durata”, e un tempo spazializzato, ovvero una linea
descritta da un movimento e che è diventata per questo il simbolo del tempo.
Ciò accade perché immaginariamente si fa coincidere la traiettoria con il
tragitto. Il movimento procede lungo la linea, se decidiamo di distinguere dei
punti su di essa, questi punti diventano “posizioni”, arresti di questo mobile.
Tali posizioni corrisponderebbero a delle estremità di suddivisione della
linea, sul tragitto del movimento. Tali punti di arresto li facciamo
corrispondere a degli “istanti” della continuità del movimento. Arresti
virtuali, fermi immagine, vedute mentali.Il
movimento si “vive”. La linea è il ricordo di quel movimento. È una rappresentazione. È un simbolo del movimento
che fluisce continuamente. Noi confondiamo sempre la traiettoria di un oggetto
in movimento, sia esso la lancetta di un orologio, sia esso la terra intorno al
sole, sia esso il pendolo, una nuvola, la sigaretta che si consuma, con il
tragitto che realmente quell’oggetto compie. Il punto della linea che
rappresenta il tragitto di quel mobile è quello che noi chiamiamo istante. Ogni
istante è riconducibile ad una determinata posizione del mobile nello spazio.
[i] Il secondo io «fissando meglio la sua attenzione vedrà [i stati di coscienza] fondersi fra loro come fiocchi di neve al contatto prolungato con la mano. Ma a dire il vero, per comodità di linguaggio, egli avrà tutto l’interesse a non ristabilire la confusione là dove regna l’ordine e a non turbare affatto questa ingegnosa disposizione di stati in un certo senso impersonali, grazie a cui ha smesso di formare “un impero in un impero”. Una vita interiore dai momenti ben distinti dagli stati nettamente caratterizzati risponderà meglio alle esigenze della vita sociale». Bergson H., Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaele Cortina Editori, Milano, 2002, p. 89.
[ii] «Sostituendo alla compenetrazione dei termini reali la giustapposizione dei loro simboli, pretendiamo di ricostruire la durata con lo spazio». Bergson H., Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaele Cortina Editori, Milano, 2002, p. 87.