Il fallo e la madre inappagata

Brani antologici Seminario IV: Jacques Lacan, Il seminario. Il libro IV. La relazione d’oggetto, Enaudi, Torino, 2007. L’oggetto feticcio

Il dono si manifesta all’appello. L’appello si fa sentire quando l’oggetto non c’è. Quando c’è, l’oggetto si manifesta essenzialmente solo come segno del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento. È proprio lì per essere respinto, essendo questo niente. Questo gioco simbolico ha quindi un carattere fondamentalmente deludente. Ecco l’articolazione essenziale a partire dal cui il soddisfacimento si situa e prende senso. (S4, 181-182)

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Non voglio dire che in occasione di questo gioco non ci sia nel bambino un soddisfacimento accordato al pure ritmo vitale. Dico che ogni soddisfacimento messo in causa nella frustrazione ha luogo sullo sfondo del carattere fondamentalmente deludente dell’ordine simbolico. Il soddisfacimento è qui solo un sostituto, una compensazione. Il bambino riduce ciò che è deludente nel gioco simbolico tramite la presa orale dell’oggetto reale di soddisfacimento, per esempio il seno. Ciò che lo addormenta in questo soddisfacimento è proprio la delusione, la frustrazione, il rifiuto che a volte ha provato. (Ibidem)

La dolorosa dialettica dell’oggetto, al tempo stesso presente e mai presente, a cui egli si esercita, ci viene simbolizzata in questo esercizio genialmente colto da Freud allo stato puro, nella sua forma isolata. È il fondo della relazione del soggetto con la coppia presenza-assenza, relazione con la presenza su sfondo di assenza, con l’assenza in quanto costituisce la presenza. Il bambino riduce nel soddisfacimento l’insoddisfazione fondamentale di questa relazione. Addormenta il gioco nella presa orale. Soffoca ciò che riguarda la relazione fondamentalmente simbolica. (Ibidem)

Non è l’oggetto a svolgere il ruolo essenziale, ma il fatto che l’attività ha preso una funzione erotizzata sul piano del desiderio, il quale si articola nell’ordine simbolico. (S4, 183)

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Vi faccio notare, per inciso, che tutto ciò porta così lontano da rendere possibile che, per svolgere lo stesso ruolo , non ci sia più alcun oggetto reale. Si tratta in effetti soltanto di ciò che dà luogo a un soddisfacimento sostitutivo della saturazione simbolica. Solo questo può spiegare la vera funzione di un sintomo come quello dell’anoressia mentale. Vi h già che l’anoressia mentale non è  non mangiare, ma non mangiare niente. Insisto: questo vuol dire  mangiare niente. Niente è appunto qualcosa che esiste sul piano simbolico. Non è un nicht essen. Questo punto è indispensabile per capire la fenomenologia dell’anoressia mentale, si tratta, per la precisione, del fatto che il bambino mangia niente, che è un’altra cosa da una negazione dell’attività. Di questa assenza gustata come tale, si serve nei confronti di ciò che ha di fronte, ossia la madre da cui dipende. Grazie a questo niente, la fa dipende da lui, se non cogliete questo punto, non potete capire nulla non solo dell’anoressia mentale, ma neppure di altri sintomi, e farete i più grandi errori. (S4, 184)

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Obietterete che ho insegnato che il soggetto, nel momento in cui coglie la totalità del proprio corpo nella sua riflessione speculare, in cui in un certo qual modo si realizza in questo altro totale e si presenta a se stesso, prova piuttosto un sentimento di trionfo. È una ricostruzione che non è priva di conferme nell’esperienza, e il carattere di giubilo di quest’incontro è indubbio. Ma è bene non confondere due cose. (S4, 185)

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Da una parte, vi è l’esperienza della padronanza, che darà alla relazione del bambino con il suo io un elemento di spliting essenziale, di distinzione da se stesso, che rimarrà fino alla fine. Dall’altra, vi è l’incontro con la realtà del padrone. Nella misura in cui la forma della padronanza è data al soggetto sotto forma di una totalità a lui stesso alienata, ma strettamente legata a lui e da lui dipendente, allora c’è giubilo. Ma succede altrimenti quando, una volta che questa forma gli è stata data, incontra la realtà de padrone, così, il momento del suo trionfo è anche il tramite della sua sconfitta, quando si trova in presenza di questa totalità sotto forma del corpo materno, deve constatare che questa non gli obbedisce. Quando la struttura speculare riflessa dello stadio dello specchio entra in gioco, in quel momento l’onnipotenza materna viene riflessa solo in posizione nettamente depressiva e si ha allora il sentimento di impotenza del bambino.(S4, 185.186)

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È a livello dell’oggetto annullato in quanto simbolico che il bambino mette in scacco la propria dipendenza e precisamente nutrendosi di niente. È a livello dell’oggetto annullato in quanto simbolico che il bambino mette in scacco la propri dipendenza e precisamente nutrendosi di niente. È qui che rovescia la sua relazione di dipendenza, facendosi, con questo strumento, padrone dell’onnipotenza avida di farlo vivere, lui che dipende da lei. Da allora in poi, è lei a dipendere dal suo desiderio, è lei alla sua mercé delle manifestazioni del suo capriccio, alla mercé della sua onnipotenza. (S4, 186)

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In un articolo ammirevole apparso nel 1920 sul complesso di castrazione nelle donne, a pagina 341, egli fornisce l’esempio di una bambina di due anni che va all’armadio dei sigari, dopo pranzo. Dà il primo al papà, il secondo alla mamma che non fuma e mette il terzo tra le gambe. La mamma raccoglie tutto l’armamentario e lo ripone nella scatola dei sigari. Non è a caso che la bambina ritorni e ricominci, dato che questo giunge a proposito. Mi rincresce che non sia commentato in modo più articolato. Abraham ammette implicitamente che il terzo gesto della bambina indica che questo oggetto simbolico le manca. Manifesta così la mancanza. (S4, 191)

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Si tratta del fallo e di sapere in che modo il bambino realizza più o meno coscientemente che la madre onnipotente manca fondamentalmente di qualcosa, ed è sempre la questione di sapere attraverso quale via egli le darà quell’oggetto di cui lei manca e di cui sempre egli stesso manca. (S4, 192)

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In altri termini, in tutto il periodo preedipico da cui le perversioni traggono origine, si tratta di un gioco che va avanti, un gioco a nascondino o delle tre carte, o anche il nostro gioco di pari e dispari, in cui il fallo è fondamentale in quanto significante, fondamentale in questo immaginario della madre che si tratta di raggiungere, poiché l’io del bambino poggia sull’onnipotenza della madre. Si tratta di vedere dov’è e dove non è. Non è mai veramente dov’è, non è mai del tutto assente dove non è. Tutta la classificazione delle perversioni deve fondarsi su questo. Qualunque sia il valore degli apporti sull’identificazione con la madre e sull’identificazione con l’oggetto ecc., l’essenziale è il rapporto con il fallo. (S4, 192-193).

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Il soggetto si identifica con una donna, ma con una donna che ha un fallo, solo che ne ha uno in quanto nascosto. Il fallo deve sempre partecipare di ciò che lo vela. Vediamo qui l’importanza essenziale di ciò che ho chiamato il velo. È attraverso l’esistenza dei vestiti che si materializza l’oggetto. Anche quando l’oggetto reale c’è, bisogna che si possa pensare che può non esserci e che sia sempre possibile pensare che sia precisamente dove non è. (Ibidem)

Tutte le perversioni giocano sempre, per qualche verso, con questo oggetto significante in quanto è, per sua natura e di per sé, un vero significante, vale a dire qualcosa che non può in nessun caso essere preso nel suo valore facciale. Quando ci si mette la mano sopra, quando lo si trova e ci si fissa definitivamente, come nel caso della perversione delle perversioni, che si chiama feticismo – è veramente la perversione che mostra, non solo dove esso veramente sta, ma ciò che esso è -, l’oggetto è esattamente niente.  Un vecchio vestito usato, è un cencio. È ciò che si vede nel travestitismo: una scarpetta usata. Quando appare, quando si svela veramente, è il feticcio. (S4, 193)

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Per soddisfare ciò che non può essere soddisfatto, ossia quel desiderio della madre che, nel suo fondamento, è inappagabile, il bambino, qualunque sia la via attraverso cui lo fa, si avvia a farsi, egli stesso , l’oggetto ingannatore. Si tratta d’ingannare questo desiderio che non può essere appagato. Precisamente nella misura in cui mostra alla madre ciò che non è, egli si costruisce tutto il percorso attorno a cui l’io acquista la sua stabilità. (S4, 194)

Al contrario, il soggetto suppone nell’altro il desiderio. È un desiderio al secondo gado che si tratta di soddisfare, e siccome è un desiderio che non può essere soddisfatto, non si può che ingannarlo. (Ibidem)

Ecco il grande pericolo che ci rivelano i suoi fantasmi, essere divorato. Lo troviamo all’origine e lo ritroviamo […] nella […] forma essenziale sotto cui si presenta la fobia. (Ibidem)