Chi non ha provato l’esperienza di sentire il proprio corpo “andarsene per conto suo”? Quel batticuore se prendi la parola in presenza di un pubblico numeroso. La spossatezza dopo una giornata difficile. Il nodo alla gola per una brutta notizia, il magone per il tuo desiderio che non si realizza, il tremore delle gambe, delle mani e così via.
Iniziamo da qui: In memoria i ricordi tendono a configurarsi tra di loro in uno schema. Ma cosa intendiamo per schema? Iniziamo con l’ipotizzare che sia una capacità inconsapevole, appunto, di organizzare i nostri ricordi.
Il termine schema deriva dalla parola σχηµα che sta ad indicare lo stato del corpo in movimento. Pensiamo alle statue classiche degli atleti raffigurati sempre nel movimento del loro gioco olimpico, molto diverse dalla rigida fissità delle statue arcaiche note come curoi (χνροι), rappresentazioni astratte della bellezza e della forza dei corpi giovanili. Quindi lo schema non è una cosa rigida.
Fu Bartlett a teorizzare per primo quel concetto di schema che poi ebbe così tanta fortuna nelle scienze cognitive. La memoria, sostiene questo autore, è flessibile e non una costellazione rigida di tracce mnestiche. Lo schema è un organizzazione di conoscenze in grado di orientare il comportamento. L’ipotesi di fondo è che molti ricordi passati tendono ad assumere la forma degli schemi familiari e routinari. L’esempio classico è quello di un esperimento fatto sulla narrazione di una storia intitolata la Guerra degli spiriti. Una storia breve seppur molto articolata e piena di dettagli, incentrata su una leggenda degli indiani d’America.
L’esperimento prevedeva che un soggetto dovesse leggere per due volte il racconto e, dopo 30 minuti, provare a rievocarlo riscrivendolo. La nuova versione scritta dal primo soggetto passava ad un altro che a sua volta la riscriveva e così via. Alla decima versione, la trama si cristallizzava in una versione molto semplificata e con molti passaggi divergenti dall’originale. Ciò accadeva perché si tendeva a ricordare la storia a partire dalla propria cultura di origine e cioè quella occidentale, senza per questo riuscire a fissare alcuni aspetti caratteristici invece della cultura indiana.
Un batticuore occasionale causato, per esempio, dal prendere la parola durante una conferenza, potrebbe ingenerarsi da una serie associativa inconsapevole di ricordi di un certo tipo, cioè dei legami associativi che col tempo si sono strutturati in uno schema. È solo un ipotesi di partenza. Forse anche banale, ma per adesso ci può bastare.
Che cosa ci impedisce di creare nuovi legami associativi? Diciamo più pertinenti a quel contesto? Riprendendo l’esempio del “batticuore”: prendi il microfono e dici quello che devi dire punto e basta?!
Generalmente la tachicardia è associata a un incremento dell’attività muscolare o respiratoria, come quando si fa jogging. Ma si può produrre anche quando ti ritrovi mille occhi puntati addosso durante una conferenza, occhi in grado di valutare, giudicare, esaminare quello che stai dicendo. Questa è una conoscenza che tutti hanno intuitivamente. Ma perché accade?
Il legame “batticuore-tensione muscolare alle gambe-aumento respiratorio-perdita lucidità-sala gremita di illustri personaggi” sembra continuare a produrre i suoi effetti, ogni volta. Alla faccia di tutti i ragionamenti o le buone intenzioni di migliorare la tua comunicazione in pubblico.
Ma qual è lo schema che c’è dietro questo legame associativo? Nel senso che, il legame associativo “batticuore-tensione muscolare alle gambe-aumento respiratorio-perdita lucidità- prendere la parola in una sala gremita di illustri personaggi” può connettersi anche ad un’altre situazioni?
Certo che sì, mi viene in mente quella volta che per poco non investivo una vecchietta riuscendo a frenare giusto in tempo: il cuore batteva all’impazzata e le gambe mi tremavano. Ma allora qual è la logica di questo schema? È forse la paura di qualcosa? Ma paura di cosa?