Nel 1946, durante le giornate psichiatriche di Bonneval, Lacan presentò un’altro scritto che articola e complessizza le tesi emersi nello scritto del 1932: “Discorso sulla causalità psichica”[1]. Testo di straordinaria attualità nel quale si oppone con estrema decisione all’idea che i fatti psichici siano riconducibili ad una causalità organica: si sostiene l’esclusività della causalità psichica nella psicogenesi, essa corrisponde alla libertà del soggetto. Al principio di causalità fisica e alla teoria dell’interazione molecolare, egli contrappone la semantica e la logica del senso: se dei danni organici possono causare una serie di turbamenti, la pazzia emerge solo se il soggetto dà senso a questi fenomeni e allorché decide di parlarne ad altri in quanto fenomeni che lo riguardano direttamente. Al cuore della follia c’è un soggetto responsabile: responsabile del senso attribuito al puro dato reale.
Lacan definisce suo “unico maestro in psichiatria” De Clérambault[2] che, nonostante sia convinto sostenitore della causalità fisica, le sue ricerche sulle significazioni della follia lo portarono anche a coglierne i limiti: per spiegare la causa meccanica dei fenomeni psichici era obbligato all’uso della comprensione del senso. Ma è proprio in quel punto estremo, in quel confine semantico che De Clérambault individua la causa organica, mentre in quello stesso luogo, Lacan individua una decisione profonda del soggetto: soggetto in quanto libero.
Ne Il discorso sulla causalità psichica, egli si oppone senza mezzi termini all’approccio organicista di Henry Ey (che a sua volta si rifà alle teorie di Hughlings Jackson). La teoria di Ey sarà denominata “organo-dinamismo”: i disturbi mentali vanno interpretati come disturbi funzionali o lesionali dei tessuti organici. Psichiatria e neurologia si fondono in un’unica disciplina e il disturbo mentale finisce per perdere la sua ragion d’essere: avremo solo disturbi neurologici, che avranno differenti effetti sul comportamento a partire dalla localizzazione cerebrale che lo avrà causato. C’è “ qualcosa che distingue l’alienato dagli altri malati, al di là del fatto che quando lo si ricovera lo si rinchiude in un manicomio”?[3] È da questa domanda che parte Lacan infatti “è la reazione della personalità ad apparire, nella teoria di Henry Ey, come specifica delle psicosi. Proprio qui la sua teoria mostra a un tempo la sua contraddizione e la sua debolezza”[4]. Ey non può fare a meno di considerare la follia se non a partire da una questione di senso, di verità: di cui il folle, seppur intrappolato nel suo delirio, è alla ricerca. Perché crede, per esempio, di essere Napoleone Buonaparte o di essere al centro di un complotto universale? Come descrivere in termini neurofiosologici questa credenza? Come spiegare il senso che il folle attribuisce a queste convinzioni? L’”organo-dinamismo” non risponde a queste domande, se non considerando la psiche come un effetto della materia, ovvero dei tessuti organici, e pertanto, rifiutandosi di rispondere realmente. “La storia del soggetto si sviluppa in una serie più o meno tipica di identificazioni ideali che rappresentano i più puri fenomeni psichici , in quanto rivelano essenzialmente la funzione dell’imago. E non concepiamo l’Io altrimenti che come un sistema centrale di queste formazioni”[5]. I fenomeni psichici sembrano mostrare “un’ambivalenza primordiale che ci appare, lo indico subito, speculare, nel senso che il soggetto si identifica nel suo sentimento di Sé con l’immagine dell’altro e l’immagine dell’altro viene a cattivare in lui tale sentimento”[6]. La psiche è strettamente connessa all’identificazione umana: essa può essere rappresentata come lo spazio evidentemente umano che si palesa tra il soggetto e l’immagine di sé. È l’interstizio che si produce tra il corpo-in-frammenti e l’immagine unitaria di sé riflessa dallo specchio e poi dall’altro, dal simile. A partire dalla relazione che il corpo umano instaura, in una certa fase del suo sviluppo prematuro, con questa immagine, in cui il soggetto riconosce la propria unitaria identità di “Io”, è possibile comprendere, secondo Lacan, tutta la realtà psichica, e cioè la realtà umana. La “causa psichica” corrisponde all’imago in cui il soggetto riconosce e fissa, di volta in volta, la propria identità. “Crediamo, dunque, di poter designare nell’imago l’oggetto proprio della psicologia”[7].
Lacan ritiene che la prima ed unica causa della follia umana sia la “causalità psichica” e cioè fondamentalmente l’identificazione. È questa a scandire la storia del soggetto umano: “ la storia del soggetto si sviluppa in una serie più o meno tipica di identificazioni ideali”[8]. L’io emerge attraverso una serie di identificazioni successive, generate dalle immagini ideali dei consimili. L’io rappresenta il prodotto di questo processo identificatorio. Qui rintracciamo l’argomentazione già trattate nella Tesi del 1932: la base costitutiva del soggetto si fonda sull’immagine ideale dell’altro. È una cattura prodotta dall’immagine dell’altro in cui l’io del soggetto si contempla narcisisticamente. La natura profonda del soggetto è che: l’io è, sempre e per ognuno, folle. La differenza tra lo scritto del 1932 e il Discorso sulla causalità psichicaconsiste nell’aver individuato, in questo secondo, l’operatore dell’identificazione: l’immagine del proprio simile. Questo significa che, se l’imago costituisce l’operatore delle identificazioni alla base dello sviluppo dell’io, la cattura dell’io da parte del simile non si trova solo nella psicosi, ma anche nell’io di ogni soggetto. Ed è proprio per questo motivo che Lacan in questo scritto parlerà di follia e non di psicosi. Anche nella nevrosi l’io si costituisce attraverso le identificazioni e in quanto effetto delle identificazioni in cui si aliena, sarà sempre, sostanzialmente, paranoico. L’identificazione, quindi, si configura come luogo di una causalità psichica inconscia: la cristallizzazione inconscia di un’immagine ha il potere di trasformare l’essere del soggetto. L’immagine ha per Lacan una funzione morfogena, cioè esercita un’azione modellante sul soggetto: l’imago acquisisce pertanto un suo statuto specifico nella teoria psicoanalitica[9].
L’identificazione originaria con l’immagine speculare si realizza senza mediazione[10]. Essa è alla base della relazione tra narcisismo e aggressività. Lacan ipotizza la natura paranoica sia dell’io che dell’attività della conoscenza[11]. Il rapporto che il soggetto instaura con il suo simile e con gli oggetti del mondo, si organizza a partire dallo schema fondativo prodotto dal rapporto del soggetto con la sua immagine speculare. La “tendenza” a rapportarsi con l’altro in un certo modo piuttosto che in un altro, sentimenti di simpatia o di antipatia che si producono tra il soggetto e l’altro, le modalità di rappresentarsi o di giudicare gli oggetti del mondo: “s’inscrivono in un’ambivalenza primordiale che ci appare, lo indico subito, speculare, nel senso che il soggetto si identifica nel suo sentimento di Sé all’immagine dell’altro, e che l’immagine dell’altro viene a cattivare in lui tale sentimento”[12].
In modo folle, noi pensiamo di essere identici a noi stessi: l’essere umano si crede un io. Lacan ammonirà: “se un uomo che si crede re è un pazzo, un re che si crede un re non lo è da meno”[13]. Riprendendo Hegel, egli ci suggerisce lo schema generale della follia che, “formula generale della follia nel senso che la si può vedere applicarsi particolarmente a una qualsiasi di quelle fasi per cui più o meno si compie in ciascun destino lo sviluppo dialettico dell’essere umano, e nel senso che essa vi si realizza sempre, come una stasi dell’essere in un’identificazione ideale che caratterizza questo punto con un destino particolare”[14]. La follia si ritrova nel disconoscimento che “si rivela nella rivolta per cui il folle vuole imporre la legge del suo cuore a ciò che gli appare come il disordine del mondo, impresa ‘insensata’ […] per il fatto che il soggetto non riconosce in questo disordine del mondo la manifestazione stessa del proprio essere attuale”[15]. […] “Il rischio della follia si misura sull’attrazione delle identificazioni in cui l’uomo impegna ad un tempo la sua verità è il suo essere. Lungi quindi dall’essere il fatto contingente delle fragilità del suo organismo, la follia è la virtualità permanente di una faglia aperta nella sua essenza. Lungi dall’essere per la libertà “un insulto”, ne è la più fedele compagna, ne segue il movimento come un’ombra. È l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà”[16]. Il soggetto è definito folle perché è alienato nell’altro in cui si identifica. L’io è folle relativamente a quanto e come risulta catturato dalle proprie identificazioni. “Il rischio della follia si misura sull’attrazione delle identificazioni in cui l’uomo impegna ad un tempo la sua verità ed il suo essere”[17].
[1] Jacques Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), in Scritti, op. cit. .
[2] Jacques Lacan, Dei nostri antecedenti, in Scritti, op. cit., p. 61
[3] Jacques Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), in Scritti, op. cit., p. 148
[4] Jacques Lacan, op. cit., p. 150
[5] Jacques Lacan, op. cit., p. 172
[6] Jacques Lacan, op. cit., p. 175
[7] Jacques Lacan, op. cit., p. 182
[8] Jacques Lacan, op. cit., p. 172
[9] Jacques Lacan, op. cit., p. 182 e p. 185
[10] Jacques Lacan, op. cit., p. 166
[11] Jacques Lacan, L’aggressività in psicoanalisi (1948), in Scritti, op. cit., p. 108 e Jacques Lacan,Discorso sulla causalità psichica (1946), in Scritti, op. cit., p. 175
[12] Ibid.
[13] Jacques Lacan, op. cit., pp. 164-165
[14] Jacques Lacan, op. cit., p. 166
[15] Jacques Lacan, op. cit., pp. 165-166
[16] Jacques Lacan, op. cit., p. 170
[17] Ibid.