Dimensione geometrale

Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 91-92.

Nel quadro di Holbeinvi ho fatto vedere subito – senza dissimulare più di quanto non faccia di solito il retroscena – il singolare oggetto che fluttua in primo piano, che è lì che guarda, per prendere, direi quasi prendere in trappola colui che guarda, vale a dire noi. Insomma, è un modo manifesto, indubbiamente eccezionale e dovuto a chissà quale momento di riflessione del pittore, di farci vedere che noi, in quanto soggetti, siamo letteralmente chiamati nel quadro, e qui rappresentati come presi. Poiché il segreto di questo quadro, di cui vi ho ricordato le risonanze e le parentele con le vanitates, di questo quadro affascinante che presenta, tra i due personaggi ornati e fissi, tutto ciò che, nella prospettiva dell’epoca, ricorda la vanità delle arti e delle scienze – il segreto di questo quadro è dato nel momento in cui, allontanandocene leggermente, poco a poco, verso sinistra, e poi voltandoci, noi vediamo quello che significa l’oggetto fluttuante magico. Esso ci riflette il nostro proprio nulla nella figura del teschio. Un uso, dunque, della dimensione geometrale della visione per avvincere il soggetto, rapporto evidente con il desiderio che, tuttavia, resta enigmatico.

[…]

Nell’ambito che ho chiamato del geometrale, all’inizio sembra che sia la luce a darci, per così dire, il filo. In effetti, avete visto la volta scorsa che questo filo ci collega a ogni punto dell’oggetto e, nel luogo in cui attraversa la rete in forma di schermo sul quale reperiremo l’immagine, esso funziona proprio come filo. Ora la luce si propaga, come si dice, in linea retta, ciò è assodato. Sembra, dunque, che sia lei a darci il filo.

Tuttavia, riflettere che questo filo non ha bisogno della luce – ha bisogno solo di essere un filo teso. Per questo motivo di cieco sforziamo un po’. Gli faremo tastare, per esempio, un oggetto in una certa altezza, poi seguire il filo teso, gli insegneremo a distinguere toccando con la punta della dita, su una superficie, una certa configurazione che riproduce la localizzazione delle immagini – nello stesso in cui, nell’ottica pura, immaginiamo i rapporti diversamente proporzionati e fondamentalmente omologhi, le corrispondenze tra un punto e l’altro nello spazio, il che significa sempre, in fin dei conti, situare due punti di uno stesso filo. Tale costruzione non permette, dunque, in modo particolare di cogliere ciò che la luce rivela.