Lacan e Freud ci insegnano che il desiderio è sempre desiderio di altra cosa ma allo stesso tempo esso dice qualcosa della verità inconscia del soggetto che agisce a sua insaputa. Il linguaggio così è intrappolato nelle determinazioni inconsce: inconscio e linguaggio sono profondamente intrecciati tra di loro.
Il desiderio nasce prima della domanda, ma può articolarsi solo a partire da questa, si struttura proprio grazie ai significanti che usiamo per formulare la domanda, ma, dall’altro lato, il desiderio ci indica qualcosa che va oltre domanda, una verità inconscia, una verità che sbrilluccica lasciandosi intravedere dietro le parola senza che il soggetto parlante se ne renda conto.
Il desiderio si fa parola attraverso la formulazione della domanda, si esprime nel linguaggio ma esso è anteriore al discorso. Così il linguaggio resta intrecciato inevitabilmente all’inconscio. Desiderio inconscio e linguaggio si attraversano vicendevolmente creando effetti di senso accidentali, singolari, unici. È per questo che il senso non può che essere metaforico. Il senso emerge dal processo di sostituzione di un significante con un altro significante. Un significante ha senso solo se rinvia necessariamente ad un altro significante. Ma quale è il significante ultimo di questo inarrestabile rinvio ad libitum in grado di dire qualcosa della verità di quello che sono?
Il flusso dei significati si rapporta con il flusso dei significanti a partire da quella che Lacan chiama “segmentazione significativa” che arresta “lo scivolamento altrimenti indefinito della significazione” [Sovversione del soggetto p. 807]. Tale segmentazione è resa possibile dal punto di capitone che deriva dalla funzione del valore del segno. Il punto di capitone ci dice in sostanza che è necessario per la frase che sia pronunciata l’ultima parola per poter capire dove si trova la prima.[1] Il punto di capitone supera il concetto sassuriano di “taglio significante” poiché esso emerge nella dimensione prelinguistica del desiderio.
È dall’ultimo significante della sequenza che il primo e quelli successivi acquisiscono la loro significazione. Quello che rappresentava il valore del segno saussuriano, qui si realizza nell’après-coup (Nachträglich).
Ma prima della frase, abbiamo i costituenti di essa, i significanti. Gli elementi di questo vettore saranno fonemi, ovvero le unità minime che, da sole, sono sprovviste di senso ma che combinandosi tra loro, garantiscono la formazione di significanti.
In ogni lingua abbiamo un numero delimitato di queste unità minimali che si distinguono tra di loro, ovvero, è possibile discriminarli attraverso un’analisi commutativa, ovvero, scambiando, nello stesso contesto di una sequenza di significanti, due di queste unità. Se la sostituzione del fonema produce due sensi distinti, allora ci troviamo di fronte a dei fonemi. Per esempio, /p/ e /b/ sono fonemi perché è presente la coppia minima ‘palla’ – ‘balla’. I fonemi quindi sono determinati dal codice della lingua, ed è attraverso le opposizioni che i messaggi saranno distinguibili gli uni dagli altri.
Il circuito ABB’Y rappresenta il discorso razionale o il circolo del discorso, ovvero, il discorso comune, quello corrente costituito da semantemi, ovvero dagli elementi significativi fissati dal codice. Nel codice (A) abbiamo l’insieme dei segni che si combinano tra di loro secondo delle regole prestabilite e che consentono di trasmettere informazioni alla base della comunicazione intersoggettiva.
Il codice prescrive una serie di regole che rendono il circolo del discorso ristretto nelle sue possibilità di creare senso, perché il senso è fissato dal codice stesso. Da questo punto di vista il discorso razionale è il luogo della parola vuota, ovvero il luogo del discorso concreto finalizzato a farci intendere dall’altro.
A quindi è il luogo del codice, ovvero dove sono stabiliti gli usi differenti dei vari significanti, è il luogo del simbolico, il luogo della comunicazione intersoggettiva, ciò che è alla base del discorso non-delirante. È il luogo del grande Altro, del tesoro dei significanti.
Nel punto Y termina il circuito. È il luogo dove si costituirà il senso, grazie ovviamente al codice. È il messaggio, ovvero una sequenza di significanti strutturata da regole di combinazione stabilite dal codice.
Y è il luogo della parola piena, tuttavia, nel luogo del messaggio raramente si produce la verità del soggetto, perché il discorso non attraversa realmente la catena significante perché esso passa per il segmento BB’ e non per il segmento AY, che dal codice va al messaggio e quindi, tale cortocircuito, impedisce di dire qualcosa di vero, perché esso gira a vuoto. È il mulin à paroles: “è il discorso comune, fatto di parole che non dicono niente, grazie al quale ci si assicura che non si ha a che fare con quel che l’uomo è al naturale, vale a dire una bestia feroce”[2].
La macina parole è il
corto-circuito che passa per BB’. L’oggetto metonimico, l’oggetto del
desiderio, si situa nel punto B’, mentre nel punto B si situa il soggetto in
quanto colui che parla, l’Io.
È interessante sottolineare che già in questa
versione del grafo è possibile individuare due livelli della parola. Quando il
soggetto è alle prese nel discorso del “macina parole”, il discorso
della parola vuota lascia in realtà intendere qualcosa in più di quello intende
dire, infatti, la parola autentica, la parola piena, può diventare messaggio
solo se la catena significante risulta essere garantita dal codice che ne
regola l’uso. Questa aggiunta di senso dovrà quindi essere reperita nella parte
alta di questo grafo e anche se è stata collocata oltre il circuito macina
parole, essa è sempre presente.
[1] “Se dobbiamo trovare un modo per accostarci più da vicino ai rapporti fra la catena significante e la catena significata, possiamo avvalerci dell’immagine grossolana del punto di capitone […]. È assolutamente necessario – è la definizione della frase – che io abbia pronunciato l’ultima parola per comprendere dove sta la prima. Ecco l’esempio più tangibile di quello che potremmo chiamare l’azione nachträglich del significante. J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio ,o p.11.
[2] J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, p. 14.