La dura realtà

Oggi, più di ieri, sento la responsabilità di accogliere la sofferenza che dilaga in un momento così difficile. Il compito di uno psicoanalista non è quello di guidare il paziente ma quello di sostenerlo nell’essere lui stesso a scegliere e a farlo da persona libera. Tuttavia, in questi giorni faccio i conti con quella che Freud chiamava “incapacità di adattarsi alla dura realtà, all’ Ἀνάγκη”[1]. È una incapacità che osservo prima in me stesso ma anche nei miei pazienti.

C’è una necessità che domina la vita, “severa educatrice”[2], che esige da noi l’accettazione di condizioni difficili, non desiderate, come quella che oggi viviamo a causa del covid19.

Che il lavoro vada a gonfie vele, che i nostri cari non si ammalino, che il nostro amore venga ricambiato, che la povertà non ci bussi alla porta, che non succeda niente di doloroso. È questo ciò che la maggior parte di noi si augura. È l’ideale.

Il dramma di vivere una condizione sospesa tra l’essere e l’esistere, tra le idee, gli ideali e ciò che attraversiamo come individui calati nell’esistenza, oggi diventa tragedia.

C’è una differenza importante tra esistere ed essere. L’esistenza dovrebbe essere subordinata all’essere, l’esistere rappresenta il modo contingente di manifestarsi dell’essere. L’esistenza è ciò che accade, ma ciò che oggi accade fa tremare il nostro essere, prende quasi il sopravvento su di esso.

Ci sentiamo attratti dal “mondo iperuranico” delle idee, dal linguaggio, dalle cose dotate di senso, dalle parole che usiamo per parlare di noi stessi e del mondo. Tutto questo oggi si scontra ferocemente con quello che stiamo attraversando nella contingenza del divenire: la morte, la malattia, le perdite. Non è più una catastrofe nevrotica, è la dura realtà.

Siamo sospesi tra l’ideale di ciò che potremmo, dovremmo e pretendiamo di essere e ciò che siamo oggi, nella contingenza che la vita ci impone.

Non c’è un registro per il contingente. Il contingente è ciò che non si lascia scrivere, è ciò che accade, a posteriori, non possiamo saperlo prima, non c’è garanzia di poterlo conoscere in anticipo. Chiunque di noi ha fatto esperienza di una perdita: il lavoro, una persona cara, l’amore, la salute, un fallimento. Accade. E spesso non ci possiamo fare niente. Non ci resta che accettarlo.

C’è in noi la tendenza naturale a esigere che il mondo vada così come vorremmo e l’incapacità di rappresentarci uno scenario alternativo a quello prefigurato crea la credenza di insopportabilità. Oggi dobbiamo sopportare. Accettare di rinunciare, di sacrificare anche il nostro desiderio.

Il terrore della catastrofe è simile a quello che Cartesio ha provato dopo aver reso tutto il mondo una rappresentazione dell’uomo, ha dovuto cioè di nuovo affidarsi al significante “Dio” per poter connettere l’indicibile del reale con la nostra rappresentazione di esso.[3]

Noi, grazie a Freud e Lacan, andiamo più in là, andiamo verso il reale, verso il non-assimilabile, verso l’esistenza, senza indietreggiare.

Lo scenario della catastrofe di oggi rende tutto imperscrutabile, imprevedibile, indifferenziato, privo di senso, irrappresentabile. È ciò che accolgo nei pazienti che continuo a sostenere anche online. È ciò che io stesso, in parte, sto vivendo. Tuttavia, il fatto di non riuscire a rappresentarmi il futuro, non significa necessariamente che questo sarà insopportabile. Se sarà insopportabile lo sapremo a posteriori. Oggi è mio dovere sopportare quello che succede e sorreggere i miei pazienti in difficoltà.


[1] S. Freud, Perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, in OSF 9, p. 41.

[2] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi Lez. 22: aspetti dello sviluppo e della regressione; etiologia, OSF 8, p. 511

[3] Cfr. J. A. Miller, L’Essere e l’Uno, in «La Psicoanalisi», n. 51, 2012, pp. 230-232.