Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 25-28
L’inconscio freudiano non ha nulla a che fare con le forme cosiddette di inconscio che l’hanno preceduto o accompagnato, o che ancora lo circondano. Per capire quello che voglio dire, aprite il dizionario di Lalande. Leggete la squisita enumerazione fatta da Dwelshauvers in un libro pubblicato una quarantina d’anni fa da Flammarion. Vi sono elencate otto o dieci forme di inconscio che non insegnano niente a nessuno, che designano semplicemente il non-conscio, il più o meno conscio e, nel campo delle elaborazioni psicologiche, si trovano mille varietà supplementari.
L’inconscio di Freud non è affatto l’inconscio romantico della creazione immaginante. Non è il luogo delle divinità notturne. Molto probabilmente questo non è del tutto senza rapporto con il luogo verso cui si volge lo sguardo di Freud – ma il fatto che Jung, ripetitore dei termini dell’inconscio romantico, sia stato ripudiato da Freud ci indica a sufficienza che la psicoanalisi introduce dell’altro. Come pure non bisogna andare troppo in fretta nel dire che l’inconscio così ricettacolo e così eteroclito elaborato da E. von Hartmann in tutta la sua vita di filosofo solitario non è l’inconscio di Freud, dato che Freud stesso, nel settimo capitolo dell’ Intetpretazione dei sogni, vi fa riferimento in nota. Il che significa che si deve andare a vedere più da vicino per designare ciò che in Freud se ne distingue.
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Vi ho sillabato punto per punto il funzionamento di ciò che per primo ci è stato proposto da Freud come il fenomeno dell’inconscio. Nel sogno, nell’atto mancato, nel motto di spirito, che cosa colpisce anzitutto? E che appaiono come un intoppo.
Intoppo, mancamento, fessura. In una frase pronunciata, scritta, qualcosa viene a incespicare. Freud è calamitato da questi fenomeni ed è lì che va a cercare l’inconscio. Lì qualcosa d’altro domanda di realizzarsi – qualcosa che appare, certo, come intenzionale, ma con una strana temporalità. Quel che si produce in questa faglia” nel senso pieno del termine prodursi, si presenta come la trovata. E così che l’esplorazione freudiana incontra per la prima volta quello che succede nell’inconscio.
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Dunque la forma essenziale in cui ci appare inizialmente l’inconscio come fenomeno è la discontinuità – discontinuità in cui qualcosa si manifesta come un vacillamento. Ora, se tale discontinuità ha un carattere assoluto e inaugurale in quel cammino che è la scoperta di Freud, dobbiamo forse porla – come è stata in seguito la tendenza degli analisti – sullo sfondo di una totalità?
Forse che l’uno è anteriore alla discontinuità? Non lo credo, e tutto quello che ho insegnato in questi ultimi anni tende a far virare l’esigenza di un uno chiuso – miraggio a cui è legato il riferimento a uno psichismo da involucro, sorta di doppio dell’organismo in cui risiederebbe una falsa unità. Mi accorderete che l’uno introdotto dall’esperienza dell’inconscio è l’uno della fessura, del tratto, della rottura.
Se tenete salda in mano questa struttura iniziale, vi tratterrete dal fermarvi all’uno o all’altro aspetto parziale di ciò che è in gioco a proposito dell’inconscio – dicendo, per esempio, che si tratta del soggetto in quanto alienato nella sua storia allivello in cui la sincope del discorso si congiunge con il suo desiderio. Vedrete che, più radicalmente, è nella dimensione di una sincronia che bisogna situare l’inconscio – a livello di un essere, ma in quanto esso può vertere su tutto, vale a dire a livello del soggetto dell’enunciazione, in quanto, a seconda delle frasi o dei modi, esso si perde nella misura stessa in cui si ritrova e in cui, in una interiezione, in un imperativo, in una invocazione o in un mancamento, è sempre lui a porre il suo enigma e a parlare – in breve, allivello in cui tutto ciò che si schiude nell’inconscio si diffonde, come il micelio, secondo l’espressione di Freud a proposito del sogno, intorno a un punto centrale. E sempre del soggetto in quanto indeterminato che si tratta.
Oblivium è levis con la e lunga – levigato, unito, liscio. Oblivium è ciò che cancella – che cosa? Il significante come tale. Ecco dove ritroviamo la struttura basale che rende possibile, in modo operativo, che qualcosa assuma la funzione di depennare, di cancellare qualcos’altro. Livello più primordiale, strutturalmente, della rimozione, di cui parleremo più tardi. Ebbene, questo elemento operativo della cancellazione è quanto Freud, fin dall’origine, designa come funzione della censura.
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Così l’inconscio si manifesta sempre come ciò che vacilla in un taglio del soggetto, da cui ricompare all’improvviso una trovata che Freud assimila al desiderio – desiderio che situeremo provvisoriamente nella metonimia denudata del discorso in causa, in cui il soggetto si coglie in qualche punto inatteso.