Fonte: R. Descartes, Opere, Laterza, Bari, 1967, vol. I, pagg. 215-216
Ora io chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò anche dal mio pensiero tutte le immagini delle cose corporee, o almeno, poiché ciò può farsi difficilmente, le riputerò vane e false; e cosí intrattenendo solamente me stesso e considerando il mio interno, cercherò di rendermi a poco a poco piú noto e piú familiare a me stesso. Io sono una cosa che pensa, cioè che dubita, che afferma, che nega, che conosce poche cose, che ne ignora molte, che ama, che odia, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Poiché, come ho notato prima, sebbene le cose che sento ed immagino non siano forse nulla fuori di me ed in se stesse, io sono tuttavia sicuro che quelle maniere di pensare, che chiamo sensazioni ed immaginazioni, per il solo fatto che sono modi di pensare risiedono e si trovano certamente in me. Ed in quel poco che ho detto, io credo di aver riportato tutto ciò che so veramente, o, almeno, tutto ciò che fin qui ho notato di sapere.
Ora considererò piú esattamente se, forse, non si trovino in me altre conoscenze, che io non abbia ancora percepite. Io sono certo di essere una cosa che pensa; ma so io forse anche ciò che è richiesto per rendermi certo di qualche cosa? In questa prima conoscenza non si trova nient’altro che una chiara e distinta percezione del fatto che io conosco; percezione, la quale, a dir vero, non sarebbe sufficiente per assicurarmi che essa è vera se potesse mai accadere che si trovasse esser falsa una cosa, che io concepissi cosí chiaramente e distintamente. E pertanto mi sembra che già possa stabilire per regola generale, che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere.