L’equipe si rivolge sempre al paziente come soggetto affinché siano le sue parole ed i suo atti a fornire lo spunto agli operatori per accompagnare l’andamento del suo singolare percorso terapeutico. L’equipe stessa deve farsi parte diligente per un’elaborazione collettiva permanente rispetto al “non- sapere” che la riguarda e che produce i suoi effetti nella vita dell’istituzione e nel trattamento dei pazienti. L’equipe deve ogni volta, periodicamente, soprattutto nei momenti di crisi, venire “reinventata” come luogo del transfert di lavoro da parte degli operatori che la costituiscono, perché possa continuamente funzionare per i pazienti come polo cardinale del transfert in istituzione, tutelando così gli operatori (e con loro naturalmente i pazienti) dalle dinamiche transferali a due, troppo incandescenti, non regolate da un principio terzo orientante, che rischiano di paralizzare il corso del trattamento. Nei momenti di crisi e di stagnazione, il transfert dei pazienti nei confronti degli operatori, si trasformerà da “plurale” in “frammentato e disperso”, alimentando nella vita della comunità dinamiche di tipo immaginario e regressivo. Il campo creato dall’equipe “evocherà” al paziente il fantasma di quell’altro sregolato, incarnato dalla posizione dei genitori, nel discorso familiare di provenienza. Come dice Virginio Baio, l’operatore deve essere “qualcuno e chiunque”. “Qualunque”, poiché l’operatore dovrà destituirsi del proprio Io, stando attendo a non lavorare partendo dal suo fantasma. Credo che sia questa la sostanza dell’etica di lavoro della prospettiva lacaniana: far sì che ogni operatore assuma i propri valori, i propri significanti per metterli in discorso con i colleghi al fine di pluralizzare, e non frammentare, l’offerta per il bambino. Quindi essere “qualcuno” non significa mettere in gioco il proprio narcisismo o fantasmatico modo di abitare il mondo, non significa mettere in gioco un Io forte, un Io che crede di essere chi sa cosa. Ma come possiamo porci fuori dalla logica del fantasma? Infondo ognuno di noi ha il proprio fantasma, ognuno di noi crede di essere “qualcuno”? Come alleggerirsi dal proprio fantasma? Halleux risponde – e con ciò concludo – “è necessario un processo di una psicoanalisi. Tuttavia non tutti gli operatori sono in analisi. Come permettere allora a ogni operatore di scorgere e di rettificare in seguito ciò che costituisce il suo punto cieco nel rapporto all’Altro? Come può ogni operatore riuscire a sostenere il suo desiderio di lavoro senza farlo poggiare sul ricorso al fantasma? L’operatore che parla di un bambino deve separarsi da ciò che crede di “sapere su se stesso” a beneficio di un “altro sapere” sempre in attesa di essere verificato a plusieurs: questo sapere riguarda il posto che il bambino deve prendere come soggetto”