Apollo e Dafne o della famiglia

Dio della nobiltà e della luce civile, Apollo sarà per Vico l’emblema della sapienza poetica. Apollo inseguì Dafne nella selva e “la donzella vagabonda” chiese aiuto agli dèi, i quali impedirono l’unione selvaggia trasformando Dafne in un ramoscello di “alloro”, che per Vico rappresenta la << […] pianta che sempre verdeggia nella certa e conosciuta sua prole, in quella stessa significazione ch’i latini “stipites” dissero i ceppi delle famiglie >>[1], cioè i figli legittimi nati dai matrimoni civili, rami del ceppo che rappresenta il “lignaggio”  civile di una famiglia.

Apollo, pervaso dalla passione, sensuale osservava i capelli cadere sul collo di lei, vedeva i suoi occhi fiammeggianti le labbra morbide, le mani, le braccia… ma Dafne fugge più veloce del vento: << Apollo, osserva sporgersi sul collo di lei i capelli disadorni e che sarebbe – egli dice – se fossero acconciati? Vede i suoi occhi vividi di fuoco, pari alle stelle; vede le tenere labbra, che non basta soltanto aver viste: loda le dita, le mani, le braccia le membra più che a mezzo nude … immagina quanto si cela … Dafne fugge più celermente del vento udendo le parole di Apollo […] >>[2].

Dafne si oppone al volere di Apollo, “contra-dice” la violenta passione del Dio. << Sempre misteriosa diventa l’esperienza di ogni passione in quanto essa realizza sempre una doppia funzione: di attrazione e ripulsione, di richiesta e rifiuto, situazione nella quale costantemente si trova l’uomo: ambito originario e necessitante della metafora >>[3].

Dafne “patisce” l’inseguimento di Apollo che a sua volta è travolto dalla passione sessuale. Ma Dafne si trasforma in “alloro”, “contra-dicendo” il volere di Apollo. La lotta è finita: Apollo dinanzi al rifiuto di Dafne dice << Poiché non puoi essere mia sposa, certamente sarai la mia pianta >>[4].

Il fatto che Dafne prenderà le sembianze dell’‘alloro’ indicherà la trasformazione dell’amore che da solo sensuale soltanto diventerà anche civile, e Apollo, << luce civile >>, come lo chiamerà Vico, sarà il dio del canto e da lui prende inizio << la favella poetica in versi >>[5] .

Apollo, dopo il  rifiuto di Dafne prenderà consapevolezza della sua passione, della sua afflizione, del soffrire turbolento originato proprio da quella contra-dizione; e da quel rifiuto di Dafne il Dio Apollo troverà le parole giuste per il suo canto: << tu sarai il mio capo … la mia cetra, la mia faretra […] tu sari compagna ai condottieri del Lazio, quando le voci festose inneggeranno al trionfo >>[6].

<< Sempre misteriosa diventa l’esperienza di ogni passione in quanto essa realizza sempre una doppia funzione: di attrazione e ripulsa, di richiesta e rifiuto, situazione nella quale costantemente si trova l’uomo: ambito originario e necessitante della metafora. Dafne non si ferma nell’ambito del sensuale ma si trasforma nell’alloro, simbolo della fama umana >>[7]. Apollo, dio del canto, diede inizio alla poesia, al “lamento” in versi, originato dalla robusta passione dei sensi, da quell’ << avvertire con animo perturbato e commosso >>.

Il dolore per Vico lo si subisce e per questo egli lo prega di essere cortese nel tormentarlo:

Lasso, vi prego, acerbi miei martìri,/a unirvi insiem ne la memoria oscura,/se cortesi mai sète in dar tormento;/poiché son tanti, che lo mio cor dura,/di mille vostre offese i vari giri,/ch’i’ non ben vi conosco e pur vi sento:/talché di rimembrar meco pavento,/le mie sciagure […][8].

 

Gli “acerbi martìri”, le turbolenti e ignote passioni troveranno un po’ di pace nel canto dell’animo sofferente, ma che poi però troverà la  vera liberazione  solo nel giungere alla coscienza e poi, infine, nell’espressione, << ma perché ciò sia possibile bisogna che escano [gli acerbi martìri] dall’inconscio e si riunifichino in una zona dell’anima che non è ancora chiara ma è già, sia pure oscuramente, cosciente: è la “ memoria oscura” >>[9].

La “zona oscura”, il luogo del dolore misterioso non dovrà essere annientato, semmai dovrà essere superato, e quindi dall’ << avvertire con animo perturbato e commosso >> si rifletterà poi con << mente pura >>. E quindi, mi ripeto, il << sentire senza avvertire >> nella memoria oscura, dove si ricorda senza sapere di ricordare, dovrà essere “com-preso” e non “eliminato” dal “riflettere” con mente chiara.

Apollo canta proprio il sentire che non si conosce, che non si avverte, il sentire della “bestia” che è in ognuno di noi, che è nell’uomo che canta e che non parla ancora[10], nell’uomo che canta  i suoi tormenti. Riflettere sulla disperazione, capirla, analizzarla è il secondo passo: prima il sentire vaga nella “zona oscura”, nella “memoria oscura” e poi forse ci è dato capire con mente libera: << Lasso, vi prego, acerbi miei martìri,/ a unirvi insiem ne la memoria oscura []>>.


[1] Ivi, 533.

[2] Ovidio, Le metamorfosi, a cura di E. Oddone, Milano, 1988, su cui  cfr. E. Grassi, Vico e Ovidio: il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro Studi Vichiani”, 1992-1993, p. 181 e seguenti.

[3]E. Grassi, Op. cit.,181. Ed inoltre sarebbe interessante notare come Greimas affronterà il problema del valore linguistico partendo dall’analisi pulsionale legata alla facoltà percettiva che “subisce” poi l’articolazione attraverso l’opposizione positivo/negativo euforico/disforico. << Alla base della significazione – scrive a tal proposito Patrizia Violi – vi sarebbe dunque una prima attribuzione di valori che non sono significanti, ma emozioni e sensazioni connesse con i livelli più elementari e profondi della nostra organizzazione percettiva, come la percezione corporea … Il richiamo al corporeo non rimanda a una dimensione individuale, né il timismo può essere interpretato come un sistema di valorizzazioni privato e idiosincratico; affondando le sue radici in un substrato dell’esperienza molto profondo vicino al “bios”, la sua profondità ne garantisce l’universalità >>; P. Violi, Significato ed esperienza, Milano, Bompiani ,1997, p. 343.

[4]Ovidio, Le metamorfosi, cit., p.181.

[5]Si veda  tra l’altro S.N. , 734.

[6] Ovidio, Op. cit., pp. 559-560.

[7] E. Gassi, Vico e Ovidio: il problema della preminenza della metafora, cit.,  p.182.

[8]G.B. Vico, Affetti di un disperato, in Opere, I, cit., p. 219.

[9]E. Paci, Ingens Sylva, cit., p. 16.

[10] Cfr. E. Paci, Op. cit., p.16.