Freud si sofferma sulla virulenza presente nei tabù dei morti[1] di quasi tutti i popoli primitivi. Il contatto con il morto e il trattamento di coloro che sono in lutto per lui, producono una serie di conseguenze. In Polinesia, in Melanesia e in parte dell’Africa, il contatto fisico con i cadaveri comporta il divieto (il tabù) del toccare cibo e la conseguente necessità di farsi imboccare. Uno degli usi più singolari, connessi con il tabù del lutto presso i primitivi, è il divieto di pronunciare il nome del defunto, infatti, per loro, nota Freud, il nome è una parte essenziale e un patrimonio importante della personalità. I selvaggi hanno timore per la presenza e il ritorno dello spirito del defunto. L’ipotesi è che il defunto diventi, con la sua morte, un demone ostile dal quale doversi difendere con ogni mezzo.
È evidente, sottolinea Freud,
l’ambivalenza delle emozioni umane, proprio là, dove la persona in lutto si
autorimprovera per la morte dell’amato e per l’inconscia soddisfazione provata
per quella morte.
Il fenomeno del tabù consente di comprendere meglio
l’origine della coscienza morale. Probabilmente questa nasce sulla base di un’ambivalenza
emotiva, ossia su delle relazioni umane ben precise a cui questa è connessa.
Uno dei due elementi di questa ambivalenza è inconscio, è cioè tenuto in stato
di rimozione dall’altro elemento, coattivamente dominante. Ora, se i primitivi
temono di violare il tabù per non incorrere nella punizione che colpirebbe il
trasgressore, nella nevrosi ossessiva, ci dice Freud, la situazione è diversa:
se il malato fa qualcosa che gli è proibito, il suo timore è che la punizione
non colpisca lui stesso ma un’altra persona, ovvero, l’originario desiderio
della morte di una persona cara è sostituito dall’angoscia che questa persona
possa morire. La nevrosi non farebbe che compensare l’opposto atteggiamento di
base, ispirato da un brutale egoismo.
[1] S. Freud, Totem e tabu’ (Il tabù dell’ambivalenza emotiva (3) il tabù dei morti) (1912-13), op. cit., Vol. 7, 59-80.